voce

N.35 Novembre 2022

LINGUAGGIO

Non sono “parole al vento”. Con la voce… facciamo cose

E se si istituisse una patente di "linguaggio"? Provocazioni e pratiche sull'uso performativo del "potere che abbiamo in gola". Tra scienza, tribunali, promesse e riti sacri, così la parola modifica (davvero) la realtà

Perché non si è mai pensato di istituire una patente di “linguaggio”? O un porto di parola? Magari un diploma di enunciazione? Non significherebbe sconfessare la libertà di espressione, fortunatamente sancita dalla nostra Costituzione – non più di quanto il patentino della Vespa sconfessi la libertà di circolazione. Dopotutto, con la voce possiamo produrre infrazioni più gravi di un parcheggio in divieto di sosta, ferire più severamente di un’arma da fuoco, compiere abusi più perniciosi di un finto geometra. Chiariamo subito: si tratta solo di una provocazione. Ma serve per riflettere sulla potenza dello strumento che abbiamo in gola. Il linguaggio.

Il punto è che siamo abituati a considerare le parole come i colori della tavolozza e le frasi come il quadro del pittore realista: una rappresentazione del mondo. Il cruccio più grande è chiedersi quanto le parole siano fedeli alla realtà. Cioè quanto gli enunciati siano veri. «La copertina di questo libro è rossa» è un enunciato vero solo se la copertina del libro che ho davanti è realmente rossa. Sono un buon pittore di parole se queste corrispondono a un certo stato di cose nel mondo. Questa concezione del linguaggio ci è suggerita dalla scienza, dove gli esperimenti permettono di concludere che «a livello del mare l’acqua bolle a cento gradi» è un enunciato vero, o che «due corpi si attraggono con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza» è una legge universalmente valida. Il difetto più grande delle sentenze è quello di risultare false, il peccato più grande del parlante quello di essere un impostore. Un pittore non fedele alla realtà.

Ma è sufficiente riflettere sulle situazioni quotidiane per capire che il nostro linguaggio è ben più complesso e affascinante. Prendiamo la frase: «Mancano cinque minuti a mezzogiorno». Pronunciata in risposta a un passante sprovvisto di orologio, intendiamo descrivere le cose come stanno: sono esattamente le 11:55. Pronunciata davanti al portone di casa, con la macchina accesa, mentre la compagna apre la porta per salire, ha una forza diversa. Intendiamo: «sbrigati, che siamo in ritardo!».
Ora immaginiamo di dire le stesse parole in cucina davanti all’acqua della pasta che ribolle. Probabilmente intendiamo: «preparati che tra poco devi spegnere il fuoco». In tutti questi casi (e in mille altri che la vita ordinaria può suggerirci) il contenuto proposizionale dell’enunciato, lo stato di cose nel mondo a cui fa riferimento, rimane sempre lo stesso, ma la sua forza illocutoria cambia. Quando parliamo allora non ci limitiamo a descrivere la realtà, un po’ come quando sulla metro di Milano, nell’ora di punta, esclamiamo «il tuo piede sta sopra al mio». Ma stiamo realizzando qualcosa in più. Stiamo compiendo degli atti, quindi in un certo senso modifichiamo la realtà: facciamo cose.

Quando parliamo non ci limitiamo
a descrivere la realtà
Stiamo compiendo degli atti,
quindi in un certo senso la modifichiamo

Come fare le cose con le parole (How to do things with words) è proprio il titolo di una raccolta postuma (1962) di lezioni tenute a Oxford da John Langshaw Austin, un testo miliare, riconosciuto come la prima formulazione della teoria degli atti linguistici. Nella prima lezione, Austin analizza quello che lui definisce “atto performativo”, ovvero un’enunciazione che non descrive uno stato di cose, ma che permette al parlante di compiere un’azione semplicemente proferendola. Alcuni esempi: «Chiamo questa nave Queen Elizabeth», pronunciato mentre infrango la bottiglia sulla prua; «lascio in eredità il mio orologio a mio fratello», detto davanti a un notaio; «scommetto un euro che domani piove», mentre parlo con un amico. Nell’atto performativo il dire coincide con il fare, il dire di compiere un atto è il compimento dell’atto stesso. Si compie quello che si dice di fare, cioè si produce un fatto reale. Se questo è vero, allora bisogna immaginare il nostro linguaggio non tanto come la tavolozza del pittore, ma come una cassetta degli attrezzi che ci permette di intervenire nella realtà e creare il mondo. Al pari di uno scultore che fa esistere una statua, di un muratore che edifica una casa.

Le azioni che compiamo con il linguaggio possono essere importanti e gravide di conseguenze. Prendiamo il seguente enunciato performativo: «Prometto di esserti fedele sempre». L’istituto della promessa è alla base della morale e della società umana. Non mantenere i patti è il caso tipico del comportamento moralmente sbagliato. Viceversa, adottare comportamenti onesti e prevedibili, cioè fedeli alle promesse che si sono contratte, è il fondamento del vivere civile. Pensiamo a quanto possono incidere nel mondo enunciati performativi come: «Ti perdono», «ti dono la pace» oppure – purtroppo attuale – «ti dichiaro guerra».
L’atto performativo non è più vero o falso, ma al limite felice o infelice. Felice se compie l’azione che dice di compiere, infelice se commetto errori o abusi: se battezzo una barca al di fuori della cerimonia di varo o se prometto fedeltà sapendo di essere un traditore impenitente.
Passiamo a un altro contesto (a un altro gioco linguistico, direbbe Wittgenstein): l’ambito giuridico. Anche in questo caso, con le parole possiamo compiere azioni tremendamente importanti. Dire «io ti condanno» equivale a emettere una condanna, dire «io ti assolvo» è esso stesso un’assoluzione. Se investiti dell’opportuna autorità, con le parole possiamo statuire norme o abrogarle, conferire diritti o revocarli. Il nostro dire produce qualcosa di nuovo: dei fatti giuridici.

Quanto possono incidere nel mondo
enunciati performativi come:
«Ti perdono», «ti dono la pace»
oppure «ti dichiaro guerra»


Possiamo spingerci più in là. Nel campo liturgico e sacramentale, i performativi hanno una potenza straordinaria. Dire «io ti battezzo» non soltanto purifica da tutti i peccati, ma fa pure del neofita una “nuova creatura” secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica. La parola dell’officiante produce un cambiamento ontologico, fa rinascere a vita nuova. Il culmine è l’atto di consacrazione eucaristica («Ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo») in cui il pane e il vino, con le parole pronunciate dal sacerdote e l’invocazione dello Spirito Santo, diventano il corpo e il sangue di Cristo per il mistero della transustanziazione. Attraverso la parola dell’uomo è Dio che si incarna, il trascendente che diventa presente. Un fatto mirabile.
Il nostro linguaggio allora è davvero il riflesso del logos divino che è al principio di ogni cosa, come si legge nel Prologo di Giovanni, il dire di Dio che fa esistere il mondo. «Dio disse: ‘Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1, 3), a pensarci bene, è il primo atto performativo della storia, da cui la parola dell’uomo attinge la sua forza e continua a essere partecipe della creazione. Vista da queste altezze vertiginose, la voce ha realmente un potere sovrumano.
Se è provocatorio pensare di introdurre una licenza per il suo utilizzo, non è però azzardato invocare una maggiore cautela. Riflettiamo bene quando usiamo le parole, meditiamo sulle conseguenze che producono nel mondo.
Per esempio, stiamo molto attenti la prossima volta che diciamo «giuro che nel weekend ti porto all’Ikea».