velocità

N.49 aprile 2024

rubrica

La fuga di un padre per la “Fame d’Aria”

Parlare di genitorialità non è sempre facile, soprattutto quando è legata alla disabilità dei figli. Si rischia di cadere nella retorica, nel paternalismo e nel pietismo. Si rischia di dipingere i genitori come guerrieri-supereroi invincibili che combattono contro la stanchezza, la solitudine e un sistema inadeguato in nome di un amore che vince sempre eroicamente su tutto. Daniele Mencarelli, nel suo ultimo romanzo Fame d’aria, toglie il velo della retorica e ci consegna una storia di fatica, stanchezza e conflitto interiore.

Pietro è il papà di Jacopo, ragazzo affetto da autismo a basso funzionamento, e si presenta a noi come stanco, distrutto dalla rassegnazione di non poter vincere, arrabbiato verso quella che sente come una eterna condanna. È un genitore ed è anche un essere umano che ci mostra la fragilità in un momento della sua vita in cui sente di aver toccato il fondo, di aver esaurito la riserva di amore. Mentre leggerete questa storia – e lo farete velocemente, tutto d’un fiato – vi verrà voglia di abbracciare Pietro e stringerlo forte, di dirgli che la fatica e l’odio e il baratro in cui è caduto non avranno l’ultima parola.

Altri umani, a vedere quella donna da sola dentro una sala piena di spettri, a immaginarla senza compagnia alcuna, come molto probabilmente le accade di solito, si farebbero prendere dalla compassione.

Una stretta al cuore.

Un moto di vicinanza, per lei e la sua solitudine.

Pietro no.

Osserva la vita che gli scorre davanti agli occhi come un film, di quelli brutti, fatti male, dove il sangue non è sangue e le lacrime non sono lacrime.

Un film dell’orrore.

Visto e rivisto.

Abbiamo provato a immaginare che cosa Pietro, protagonista de Fame d’aria, avrebbe detto pensando alla parola Velocità.

Vorrei andare veloce, mentre guido verso Marina di Ginosa. Vorrei premere l’acceleratore al massimo e non pensare più a niente. Ma non posso, sul sedile posteriore c’è mio figlio Jacopo, lo Scrondo, e la mia Golf ha qualcosa che non va: provo a ingranare le marce, spingo il pedale della frizione, ma a vuoto. Mi devo fermare.

Siamo in un piccolo paesino sperduto del Molise chiamato Sant’Anna del Sannio e intorno a noi non c’è niente. Sembra il mio cuore vuoto. O lo sguardo dello Scrondo, perso non si sa dove.

Lo Scrondo. Già. Quando è nato io e Bianca eravamo giovani e innamorati. Ricordo che il mio cuore batteva all’impazzata. Anche Jacopo era veloce, i suoi occhi schizzavano a destra e a sinistra, non si perdeva niente di tutto quello che accadeva intorno a lui. Cresceva veloce fino a che, improvvisamente, smise. La diagnosi arrivò come una condanna: autismo a basso funzionamento. E da lì il mondo si fermò improvvisamente. Ricordo il momento esatto in cui  per me Jacopo smise di essere Jacopo e iniziò ad essere lo Scrondo. Aveva al massimo dieci anni, era mattina e io gli stavo facendo il bagno. Era in piedi nella vasca e improvvisamente cadde. Lo aiutai a rialzarsi, ma scivolò di nuovo e ancora una volta. Il mio pianto silenzioso si trasformò in sorriso. Sentii una frattura nel cuore, percepii che l’amore si trasformava in altro e in quel momento il mio dolore, quello che mi accompagnava da quando mi avevano comunicato la diagnosi, assunse un’altra forma: da dolore a repulsione e, infine, odio.

Odio mio figlio, inerme, odio la vita che mi scorre ogni giorno davanti agli occhi come un film, di quelli brutti, fatti male, un film dell’orrore. Odio me stesso.

Non sono una cattiva persona, sono una persona disperata, che non vede via d’uscita dall’immobilismo. Bianca ha lasciato il lavoro perché pagare qualcuno per occuparsi di nostro figlio durante il giorno era insostenibile. Tutte le terapie che ci hanno consigliato per provare a migliorare la situazione di Jacopo ci hanno messo in ginocchio e sono risultate inconcludenti.

Guardo mio figlio e lo stesso cuore che prima batteva all’impazzata di felicità per ogni suo sorriso, ora è fermo: Jacopo non comunica, non percepisce il mondo attorno a se. L’unica cosa che fa è dondolarsi avanti e indietro, passare l’indice sui jeans, più lo strofinio è frenetico più lui è nervoso, e cacarsi e pisciarsi addosso regolarmene.

Siamo fermi sul ciglio della strada che porta a Sant’Anna del Sannio da mezz’ora. Le  poche auto che passano mi sembrano andare velocissime. Meno male si ferma un carro attrezzi. Non fa servizio in strada, dice il proprietario, il signor Oliviero, ma riusciamo a impietosirlo e ci porta fino a un bar, che una volta affittava le camere. È venerdì, il pezzo di ricambio che gli serve per riparare la mia vecchia Golf deve essere cercato negli sfascia carrozze della zona, ci vorrà qualche giorno. Non so come faremo.

Appena si accorge di Jacopo chiede che cosa ha: «È autistico a basso funzionamento. Significa che non parla, non sa fare nulla, si piscia e si caca addosso». Ripeto queste parole ogni volta che qualcuno mi chiede qualcosa. Sono così semplici e brutali che ogni mio interlocutore cambia velocemente discorso, o distoglie gli occhi e non dice più niente. Il signor Oliviero appartiene alla prima categoria. In fretta mi porta dentro al bar Da Arturo dove c’è la signora Agata, donna dall’età indefinita, vedova di Arturo. Qui il tempo sembra sospeso alla fine degli anni ’70.

Forse è una mia eterna condanna: sentire il bisogno di andare veloce e trovarmi imprigionato nell’immobilità. La padrona del bar mi offre una camera, anche se è anni che non ne affitta una, a un prezzo ragionevole. «Ci sono stati dei disguidi tra l’azienda per cui lavoro e la banca, lunedì mi sbloccheranno il bancomat e posso pagare», ripeto anche a lei le stesse parole che poco prima avevo detto al meccanico.

Stavo per continuare a spiegare perché mi sono trovato a passare proprio per il Molise, quando vedo che ha cambiato il soggetto da studiare: ora fissa Jacopo, gli guarda il viso, gli occhi privi di ragione, il corpo in eterno, vuoto movimento. Qualcosa dentro di lei si smuove e sembra volere uscire: potrebbe essere commozione o una curiosità più o meno opportuna.

Questo silenzio imbarazzante viene rotto da una voce di ragazza che saluta la signora Agata. È Gaia, dall’espressione sorridente e serena, che aiuta la proprietaria al bar ed è arrivata per iniziare a lavorare. Sta lì con noi poco tempo, ma non ha mai smesso di osservare Jacopo. La signora Agata le spiega la mia situazione e la manda a comprare il necessario per sistemarci la camera.

È venerdì pomeriggio e saremo bloccati qui almeno fino a lunedì mattina, immobili e impotenti.

Dopo poco tempo la stanza è pronta e Gaia ci accompagna mentre racconta un po’ di sé e ci dice che è entusiasta all’idea di avere ancora ospiti per la pensione. «Mmmmmmmm» Jacopo ha infranto il silenzio con il suo grugnito e il suo dondolamento si è fatto più frenetico. È il segnale, l’unico che lo Scrondo è in grado di fare: deve essere cambiato.

Congedo Gaia e guardo fuori dalla finestra. Sono stanco di stare fermo. Vorrei solo poter correre via veloce, lontano dalla mia vita.

in collaborazione con @poitelopresto



SCHEDA

Pietro è un uomo che vive all’inferno. “I genitori dei figli sani non sanno niente, non sanno che la normalità è una lotteria, e la malattia di un figlio, tanto più se hai un solo reddito, diventa una maledizione.” Ma la povertà non è la cosa peggiore. Pietro lotta ogni giorno contro un nemico che si porta all’altezza del cuore. Il disamore. Per tutto. Un disamore che sfocia spesso in una rabbia nera, cieca.Il dolore di Pietro, però, si troverà di fronte qualcosa di nuovo e inaspettato. Agata, Gaia e Oliviero sono l’umanità che ancora resiste, fatta il più delle volte di un eroismo semplice quanto inconsapevole.
Con Fame d’aria, Daniele Mencarelli fa i conti con uno dei sentimenti più intensi: l’amore genitoriale, e lo fa portandoci per mano dentro quel sottilissimo solco in cui convivono, da sempre, tragedia e rinascita. (mondadori.it)

Autore: Daniele Mencarelli
Editore: Mondadori
Anno: 2023