città

N.03 Settembre 2019

CONTROCORRENTE

Beth significa casa. E la porta resta aperta

Tre famiglie con figli, una coppia e due single hanno avviato un'esperienza di co-housing in una cascina ristrutturata alle porte della città

Entrare nel piccolo cortile in comune di Casa Beth è come sostare in un’oasi: il vociare dei bambini, le sedie messe in cerchio, qualche bibita e due patatine ed è subito “casa”. Una casa grande, perché questa ex cascina ristrutturata ai margini della città ospita oggi tre famiglie, una coppia e tre “single” che hanno deciso però di andare a vivere insieme. Una scelta controcorrente che mette al centro il sostegno reciproco personale e un modo di vivere in cui apertura, solidarietà, accoglienza e condivisione sono la quotidianità. «L’idea di andare ad abitare nello stesso posto è nata da un’amicizia decennale, fatta di viaggi ed esperienze condivise. Molti di noi sono legati all’oratorio di San Michele o lavorano per Cooperativa Nazareth o hanno fatto esperienza di volontariato all’interno dell’associazione Drum Bun: da sempre sognavamo di comprare casa insieme. La spinta più grossa è arrivata dalle giovani famiglie che con l’arrivo dei figli sentivano la necessità di allargare gli spazi e trovare una nuova abitazione. Così l’antica idea di “co-housing” è riemersa… ed eccoci qui!», racconta Giusy Biaggi.
Carlo e Giulia, Davide ed Eleonora (con Gioele e Zaccaria), Gilberto e Monica (con Pietro e Davide), Nicola e Giulia e poi “le due Giusy” e Marco sono gli amici che hanno deciso di intraprendere questa avventura.
«Casa Beth è frutto di un dialogo di oltre un anno, perché dovevamo risolvere alcuni nodi. Dovevamo capire che tipologia di casa volevamo, quale modo di coabitare», racconta Monica. «Dovevamo scegliere se iniziare un’esperienza di condivisione totale – quindi con cucina in comune – con possibilità di accoglienza temporanea di persone bisognose o se studiare una formula diversa. E poi, città o periferia? Infine c’era il tema economico da tenere in considerazione».

«Per me che sono sola
è bello sapere
che in caso di bisogno
avrei in loro un appoggio»

Alla fine ha prevalso una soluzione intermedia: Casa Beth si trova in via Diritta, esattamente tra città e periferia. Il gruppo di amici rileva una parte di cascina e ciascuno inizia a sistemare la propria casa. «Abbiamo deciso che ognuno doveva avere la propria casa, la propria intimità, ma comunque abbiamo una taverna, il cortile e la lavanderia in comune. Non ci siamo potuti permettere di comprare un’altra porzione di cascina per fare appartamenti adatti ad accogliere altre persone, quindi per ora siamo solo noi. Ma è comunque una modalità di condivisione nuova, crediamo che sia anche un bel segno per chi ci guarda. Nelle nostre scelte non siamo mai stati soli: siamo infatti accompagnati da don Pier, che ci sostiene da sempre e comunque siamo sempre stati attenti alle esigenze di ciascuno», racconta Davide.
Gli fa eco Giusy Brignoli, che a Casa Beth vive in un appartamento da sola all’ultimo piano. «Il motore di tutto è la condivisione, una condivisione che viene naturale: ci si aiuta coi bambini, con la spesa e per me che sono sola è bello sapere che un domani, se dovessi avere bisogno, so che avrei in loro un appoggio. Gestiamo insieme i carichi famigliari, dai figli ai genitori anziani. D’estate una o due sere a settimana mangiamo insieme in cortile e periodicamente ci fermiamo tra noi per vivere momenti di riflessione sul nostro stare insieme. È una grande ricchezza».
«La parte forse più difficile – racconta Carlo – è stata la ristrutturazione. Economicamente è stato impegnativo, è durata molto più del previsto. Però ciascuno di noi aveva una competenza diversa e questo ci ha permesso di affrontare tutto meglio. Abbiamo preso ogni decisione insieme: dal fatto di mettere le pompe di calore fino all’installazione dei pannelli fotovoltaici. Abbiamo scelto la sostenibilità ambientale, fin dove possibile».
Più di tutto, questi coraggiosi ragazzi hanno scelto una vita di comunità, in un’epoca dove individualismo e diffidenza fanno da padroni. Ecco perché la scelta del nome è caduta su “Beth”. Lo spiega bene Davide, prima di salutarci. «Beth è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico e vuol dire, appunto, casa. Allude sia al punto più santo della terra, (Bet Hamikdash, il Tempio di Gerusalemme) sia alla casa (Bayt) dell’uomo, casa che egli può trasformare in un santuario in miniatura. E poi ci piaceva anche che graficamente la forma della lettera Beth rappresenta una casa con un lato aperto, per insegnarci che la nostra dimora deve essere sempre aperta a tutti».