terra

N.01 Maggio 2019

STORIA DI DONNE

Incontro tra due madri per il sorriso di Isabella

In un prezioso piccolo libro del 1997 Ivana Brusati, insegnante e madre, racconta la meraviglia dell'amore tra una anziana suora ormai quasi cieca e sua figlia Isabella, gravemente disabile. Una relazione di cura e protezione nata da un'amicizia tra donne in ricerca

Gustav Klimt - Le tre età della donna (GNAM, Roma)

Un’insegnante e una suora, due destini diversi, si incontrano per caso in una di quelle situazioni che segnano la vita e segnano un sodalizio spirituale e affettivo.

Tra le due donne si incunea Isabella, una bambina “affetta da tetraparesi spastica”, figlia unica dell’insegnante. Le due donne, pur profondamente diverse, hanno bisogno l’una dell’altra e si prodigano, con la tenerezza più dolce, per Isabella, la bambina che necessita di attenzioni e di un affetto non basato sui canoni comuni…

Lasciato il passeggino in portineria, sollevata sul braccio Isabella, che immediatamente si trovava uno spazio per poggiarvisi – i nostri movimenti essendo ormai felice frutto di una felice simbiosi – salivo quel silenzioso scalone, anche più ampio e imponente di quello della casa di cura, sulla cui balaustra era scolpito un refecta MDCCLXXV, e, dopo aver bussato leggermente alla porta, mi ritrovavo in quella cella monacale che continuava ad incutermi un profondo anche se più confidente rispetto. Suor Annita era seduta accanto al tavolino, che c’era in un angolo al di là del letto, le spalle al muro, rivolta verso la porta. Il gomito poggiato sul piano del tavolo, la guancia leggermente piegata nel cavo della mano che scompariva dentro la cuffia, al nostro entrare sembrava riprendersi da non so quali pensieri, mentre un sorriso le rasserenava il volto serio e assorto. E subito ci chiedeva di noi: «Isabella aveva dormito?», «Com’era il tempo fuori?», «Non aveva preso freddo per la strada?».

Fino a quel momento, vale a dire fino a che suor Annita era rimasta in clinica, Isabella era stata fra noi oggetto frequente di conversazione e suor Annita, con le sue domande puntuali, aveva appreso di lei tutto quanto c’era da sapere, ma non ne aveva mai “sentito” la presenza. Seduta dalla parte opposta della scrivania, io parlavo di “questo trappolino”, “questa patatina” che, tuttavia, accomodata tranquillamente sulle mie ginocchia, ignara di essere al centro dell’attenzione, non dava nessun segno di sé.

Ora, nella piccola cella, le distanze, anche quelle fisiche, erano diminuite e spesso, mentre eravamo sedute una di fronte all’altra, suor Annita accarezzava una scarpina di Isabella o riusciva a raggiungerle le mani.

Mostrò subito un’aperta disponibilità
non a raccontare
ma ad entrare nel mio dolore

Passavano i giorni, i mesi, le stagioni. Lungo la strada, sempre la stessa, che facevo per recarmi da suor Annita, vedevo il verde che prorompeva dai giardini, sentivo l’odore umido che hanno certi vicoli a primavera, poi il verde si faceva polveroso nel silenzio pesante dei pomeriggi estivi, finché il tepore giallo del sole diveniva un nido in cui raccogliersi, avanti che la lattigine delle prime nebbie spegnesse e uniformasse ogni colore. Ma per suor Annita non c’erano variazioni di colori nel buio in cui era immersa. Quando, alzando gli occhi alla finestra, vedevo delle bianche farfalle cadere dal cielo e, per quel sottile e festoso piacere che prova anche chi non è più bambino, esclamavo sorpresa: «Nevica!», immediatamente mi si stringeva il cuore in un senso di rabbiosa colpa e avrei voluto ritrarre, comprimere, sopprimere quel suono. «Nevica?», chiedeva. «Un po’», rispondevo con voce inespressiva. Saliva la luce bianca dell’alba a quella finestra, i vetri sembravano tremare di gioia ai raggi del sole, vi passava davanti l’azzurro come un foglio di carta distesa o un grigiore denso e palpabile la riempiva, ma per suor Annita continuava persistente la notte, una notte senza stelle e senza attesa.

Ma, in funzione di Isabella, l’amore, un amore protettivo e adorante insieme, sopperiva ai limiti della vista. Da tempo ormai aveva ritenuto di poter sostituire la baby-sitter che l’accudiva mentre io ero a scuola, pertanto Isabella passava ora l’intera giornata in convento, mentre le energie di suor Annita sembravano moltiplicarsi, inesauribili, per dare a questo piccolo “Gesù” tutto quello che “non” chiedeva. Un po’ tutti ci domandavamo stupiti come potesse reggere a questa fatica. «Fatica? Quando c’è l’amore, non c’è la fatica».

Isabella era la “sua” bambina e lei poteva trascorrere ore intere con la sua bambina, senza sentire né noia né stanchezza. Le sue gambe erano gonfie, la circolazione difettosa: qualche medico amico che passava scuoteva la testa in segno di disapprovazione: non avrebbe dovuto tenere tanto tempo quel peso in braccio. «Coosa?! Figuriamoci!». Poi, sottovoce: «Ti ha chiamata “peso”!».

Aveva imparato a cogliere
le vibrazioni interne
anche se spesso chiedeva verifica a me
«Com’è la faccina? È serena?»

A me era possibile un dialogo con Isabella, perché, se lei conosceva la mia voce ed era molto attenta alle diverse inflessioni, io leggevo la risposta nei suoi occhi solari e nel suo sorriso. Suor Annita, invece, aveva imparato a cogliere le vibrazioni interne: una contrazione, un tremito, un irrigidimento le dicevano se era più o meno comoda, più o meno a suo agio, anche se spesso chiedeva verifica a me: «Com’è la faccina? È serena?». Ma Isabella, tra le braccia, mie o di suor Annita, si abbandonava placidamente ed era sempre serena. Dopo averle dato il pranzo, quando andavo a casa a pranzare a mia volta, lasciavo Isabella sul letto, perché suor Annita doveva riordinare. È capitato che al mio ritorno trovassi suor Annita turbata: «È successa una cosa terribile», e mi spiegava che, nel prenderla in braccio, un piedino si era impigliato nella poltrona, chi lo sa, e Isabella aveva pianto. Lei, toccandola dappertutto, aveva capito che era il piedino, ma intanto la piccolina aveva avuto male: che guardassi subito, per vedere quale fosse il danno… Anche se Isabella sembrava ora del tutto rasserenata, magari con gli occhi ancora un po’ rossi… Ma non erano solo i suoi ad essere arrossati…