partenze

N.37 Gennaio 2023

MIGRAZIONI

Don Mattia, fra terra e mare con chi fugge dai lager

Il giovane sacerdote modenese, cappellano di bordo della nave di salvataggio Mediterranea Saving Humans è stato ospite a Bozzolo per la Giornata mondiale della pace. A margine dell'incontro ci ha raccontato la sua esperienza accanto ai migranti

Don Mattia Ferrari, giovane sacerdote della diocesi di Modena, è noto alle cronache per il suo impegno di salvataggio in mare in qualità di cappellano di bordo della nave Mediterranea Saving Humans. Lo abbiamo incontrato in occasione della Veglia di preghiera per la 56esima Giornata mondiale per la pace, che si è tenuta presso la parrocchia di San Pietro a Bozzolo.

Il 9 maggio 2019, i volontari sulla Mare Jonio, la nave della piattaforma della società civile Mediterranea, individuano nel tratto di mare tra la Sicilia e la Libia un gommone in avaria con 30 migranti. «Da dove venite?» viene chiesto loro. «Dall’inferno», rispondono. Tra i primi a portare aiuto c’è un giovane prete che si è imbarcato come cappellano di bordo: don Mattia Ferrari…
ed Garzanti

Partiamo dal principio, don Mattia. Parlaci di come un giovane sacerdote abbia deciso di partire dalla sua Nonantola per imbarcarsi da cappellano di bordo per il soccorso nel Mare Mediterraneo.

Sono entrato in Mediterranea non per scelta ma perché sono stato chiamato in quanto amico dei fondatori. Negli anni del Seminario prestavo servizio presso la parrocchia di S. Antonio in Cittadella a Modena, che era un punto di incontro per le tante povertà della città, luogo in cui si veniva raggiunti dalle necessità anche di tanti migranti. Nel gennaio del 2017 un ragazzo proveniente dal Gambia, di religione musulmana ma che come molti altri frequentava il nostro oratorio, ci chiamò perché in stazione a Bologna aveva trovato un suo connazionale. L’occasione di aiutarlo ci portò ad incontrare i centri sociali di Bologna, che lo accolsero nel loro dormitorio autogestito, dove lui è rinato sentendosi amato. Quando i ragazzi dei centri sociali, in primis Luca Casarini, hanno fondato Mediterranea, mi hanno voluto con loro con un ruolo di mediazione con l’area cattolica.

Quindi Mediterranea non è solo missione in mare aperto, ma anche operazioni a terra?

Dal 2018, anno in cui è stata costituita come piattaforma prima di diventare associazione, i salvataggi in mare sono stati relativamente pochi, giusto una dozzina.

Molte di più invece le iniziative organizzate in tutta Italia per devolvere fondi alle nostre missioni, che si protraggono nella fase di accompagnamento dei migranti lungo il loro percorso di integrazione, in attesa della risposta alla richiesta di asilo. Noi ci avvicendiamo per entrare nelle scuole o nei luoghi pubblici in cui siamo chiamati, per portare la nostra testimonianza, sia delle persone incontrate lungo le strade che di quelle avvistate e poi soccorse in mare.

Vuoi raccontarci cosa provi quando esci in mare per un salvataggio? Qual è stata, se c’è, una missione a cui sei particolarmente legato?

La missione in mare che ricordo di più è quella più lunga. Diciotto giorni lontano dalla terraferma, in cui convivere in uno spazio tanto particolare e ridotto come quello di una nave, non è semplicissimo. Ancora di meno lo è abituarsi all’infinito dell’orizzonte, sempre uguale a se stesso. E dal quale sai che potrebbero emergere vite umane. Purtroppo però da un anno e mezzo non posso più imbarcarmi a causa dei problemi con la mafia libica, che mi ha minacciato pubblicamente tramite il suo portavoce su twitter. Questa mafia agisce dal 2017 e pubblica continuamente materiale e foto di aerei militari europei e di documenti top secret italiani. Solo Avvenire ne parla, grazie al lavoro di Nello Scavo, il reporter che per primo ha riassunto nel neologismo Libiagate quello che potrebbe essere un grande scandalo. Ma che pare importare davvero a pochi.

«Non è facile abituarsi
all’infinito dell’orizzonte,
sempre uguale a se stesso.
E dal quale sai che potrebbero
emergere vite umane»

Tu da sacerdote ci richiami ai valori del cristianesimo e alla dignità della persona in quanto tale. In questo contesto storico culturale, come riesci a trasmettere alle persone il valore cristiano dell’accoglienza, che sembra essere osteggiato da una cultura sempre più individualistica e familistica?

È vero, è complicato. Si tratta di compiere un’operazione grande di educazione perché anche i cuori vanno educati. Ogni persona nasce capace di amare e noi crediamo che lo Spirito Santo ci renda capaci di amare. Ma le persone vanno accompagnate, educate. E su questo ci vuole una grande alleanza educativa tra le famiglie e le parrocchie. L’educazione passa poi attraverso l’incontro. La gente deve essere portata a toccare con mano le storie di chi arriva, perché è l’incontro che converte. Noi lo sperimentiamo continuamente in queste missioni. I numeri non convertono, anche se sono inquietanti. Pensa che in Libia i respingimenti sono già stati 600mila. Ma alla maggior parte delle persone questi numeri non dicono niente.

don Mattia a bordo della Mediterranea Saving Humans

Quindi, quali sono le modalità per fare alleanza educativa?

Mediterranea nasce come appendice di una missione che già si svolgeva a terra. È stata fondata da chi già di occupava di accoglienza e sentiva una compassione viscerale per le persone incontrate dopo lo sbarco e la redistribuzione sul territorio nazionale. Mediterranea agisce a terra attraverso realtà che ci invitano come parrocchie o centri sociali. E che fanno raccolta fondi attraverso eventi pubblici. Che vanno a sommarsi alle donazioni della Chiesa Cattolica, che hanno permesso le ultime uscite in mare pagando medicinali e giubbotti salvagenti. Ecco, questi sono esempi di come si possa fare, concretamente, alleanza educativa. E poi, portare le storie, i volti, le fotografie, i racconti diretti dei sopravvissuti.

In questi racconti che tu hai raccolto direttamente, attraverso l’incontro con i migranti che hai soccorso in mare o a terra, sei riuscito a riconoscere esperienze di dialogo interreligioso e di fede?

Sì, in diverse occasioni. Ma ce ne sono alcune che mi hanno particolarmente segnato.

Nel lager libico di Ain Zara, del quale abbiamo pubblicato alcune foto su Avvenire, i migranti hanno realizzato un crocefisso, il cuore immacolato di Gesù e una statua di Maria, perché alcuni di loro sono cristiani e pregano. Loro stessi, internati, hanno costruito una cappella dentro a quello che non esitiamo a definire un lager e, tramite i migranti che vivono fuori, sono riusciti a farci avere delle immagini e a farci sapere che pregano insieme.

Poi l’anno scorso ho dato la benedizione a un ragazzo morto dopo sette mesi di torture. Due volte partito, due volte catturato in mare e riportato nel lager. Lui era cristiano e un suo amico, che viveva fuori, si è messo in contatto con me perché ricevesse la benedizione prima di morire.

Ci sono quindi dei migranti in Libia che vivono fuori dai centri di detenzione?

Sì. Molti migranti vivono nascosti oppure si sono liberati dalla prigione dei lager in cui sono cacciati quando vengono respinti dalle nostre coste, e con i lavori forzati o pagando il riscatto ne escono in qualche modo. E assistono chi dal lager riesce ad uscire vivo, anche se solo per poche ore. Da un anno e mezzo a questa parte i migranti in Libia hanno iniziato ad essere attivi con una forma di coraggio impressionante e hanno creato loro stessi un movimento sociale, che cerca di denunciare all’Europa e al mondo intero quello che vivono in un paese che davvero a fatica potrebbe essere definito sicuro.