sbagli
N.43 ottobre 2023
Il calcio perfetto… finisce zero a zero
Data analysis, esasperazioni tattiche e "risultatismo" tolgono al gioco più popolare il fascino dell'imponderabile, che affonda le sue radici nella fantasia, nel rischio, nel colpo di genio, nell'errore
Nello spot pubblicitario che precede il Mondiale 2014, Nike descrive la decadenza di un calcio in ostaggio di inespressivi avatarcreati in laboratori, figli dell’oscuro disegno di un teorico della perfezione a metà tra una parodia di Ralf Rangnick e il cattivo di James Bond. Gli infallibili giocatori-computer effettuano passaggi precisi al 100%, difendono e attaccano senza commettere errori, giocando qualsiasi pallone con chirurgica precisione.
Eppure, ripulito delle umanissime sbavature di atleti in carne ed ossa – un retropassaggio mal calibrato che si trasforma in autogol, la fragorosa papera di un portiere o la palla lisciata proprio sul più bello dal centravanti distratto – il calcio scientifico degli avatar si rivela un gigante dai piedi d’argilla. Non solo diventa meno eccitante, meno spettacolare, ma si infila nel grigiore di un lungo tunnel distopico. La noia, dettata dalla tirannia della prevedibilità, divora le partite e fa scappare il pubblico. Gli stadi restano deserti. Spetterà ai vari Ibrahimovic, Cristiano Ronaldo, Rooney, Neymar e Iniesta, finiti in miseria e di nuovo radunati per la notte del giudizio del pallone, la missione di salvare il gioco “vero” superando i nemici nella finale delle finali.
Rivisto oggi il cortometraggio animato, con i campionissimi disegnati in stile Pixar, potrebbe persino suscitare tenerezza; tuttavia, ai vecchi creativi di Nike andrebbe riconosciuto il merito di aver raccontato il pericolo di una disumanizzazione del calcio basata sulla ricerca ossessiva dell’esattezza. Esattezza statistica, ma anche tattica, fisica e, naturalmente, di risultato.
Senza cadere in ritornelli inutilmente nostalgici, siamo lontani anni luce dal tempo in cui Nereo Rocco, vincitore di scudetti e coppe europee sulla panchina del Milan, rispondeva: «Che vinca il migliore? Sperem de no!».
Il calcio segue l’evoluzione della società, la ricerca generale di un metodo basato sui dati e sull’innovazione tecnologica. Non solo ai massimi livelli, ma ormai anche nel calcio semi-professionistico e giovanile, gli allenatori si affidano a collaboratori specializzati e video-analisti capaci di decodificare una quantità immensa di numeri, per trasformarli in certezze. L’aspirazione – in certi casi nemmeno troppo nascosta – è quella di evolvere i giocatori in macchine straordinariamente potenti e performanti, programmate per minimizzare la percentuale di errore, quindi l’incidenza degli episodi nel raggiungimento del risultato.
Tutto questo non è necessariamente tossico. A patto che non si oltrepassi un certo confine.
Il lato nobile del gioco
Il calcio è uno sport che si gioca con i piedi, appendici del corpo meno sensibili delle mani per controllare e colpire una palla, e conseguentemente più inclini all’errore. Gli eventi tecnici registrati durante una gara sono migliaia: in questo flusso gli sbagli, gli agganci mancati, gli interventi fuori tempo, le piccole o grandi imprecisioni nel dosaggio di un passaggio superano di gran lunga le azioni che si concludono con esito positivo.
Contrariamente a quanto avviene nella musica, o nel ballo per esempio, la popolarità dello sport più seguito al mondo non è quindi influenzata dalla perfetta sincronia di un’esibizione senza macchie, bensì dalle emozioni convulse e imponderabili generate ogni maledetta domenica, e martedì o mercoledì o giovedì per le coppe, nei 95 minuti (spesso i 5’ di recupero, intasati di stanchezza, rappresentano lo spannung delle emozioni). A tali emozioni, è doveroso ricordarlo, contribuiscono tanto le prodezze quanto gli errori.
La stessa storia del calcio è una storia di errori.
Roby Baggio nel forno di Pasadena che alza sopra la traversa il rigore-simbolo del Mondiale americano (1994).
Il tiraccio dagli undici metri di Antonio Cabrini contro la Germania Ovest, al Bernabeu, la cui memoria è annacquata dalla trionfale ripresa degli Azzurri di Bearzot (1982).
L’indecisione fatale di Oliver Kahn, che nell’ultimo atto del Mondiale nippo-coreano favorisce Ronaldo e rende il Brasile pentacampeao (2002).
John Terry, londinese doc, bandiera nonché capitano del Chelsea, che frana sul dischetto sotto la pioggia moscovita, mancando l’appuntamento con il destino che avrebbe consegnato ai Blues la prima Champions League (2008).
Kolo Muani, ragazzo della periferia parigina – un provino alla Cremonese nel curriculum in età adolescenziale – e l’erroraccio nell’ultima azione della finale di Doha, proprio sulla palla che avrebbe sottratto a Messi la Coppa del Mondo della leggenda (2022).
Senza parlare degli sbandamenti emotivi, delle voragini psico-fisiche che hanno spalancato rimonte, sconfitte drammatiche e crolli inattesi. Il Brasile del ’50 che si suicida nel Maracanzo. Il Bayern che al 91° minuto ha vinto la Champions, al 92° subisce la prima rete e al 93° si inchina al Manchester United tra le lacrime crepuscolari di Matthaus. L’illogica eclissi del Milan di Ancelotti a Istanbul. La folle testata di Zidane all’Olympiastadion, nella notte del 9 luglio 2006.
Cosa sarebbe il calcio senza tutta questa imperfezione? Cosa racconteremmo senza queste fragorose cadute di calciatori e uomini fallibili? Con ogni probabilità, uno sport noioso e dimenticato.
La chiave per vincere: sbagliare!
Semplicemente, un calcio senza errori non può esistere.
Proviamo a visualizzare l’idea dell’azione perfetta per tanti mister – cinque o sei o sette tocchi puliti dal portiere fino all’area avversaria, passando per i difensori che costruiscono e gli interni, con la palla che avanza tra le linee secondo trame codificate – e chiediamoci se il piano, in fondo, possa davvero funzionare senza un errore della controparte che difende. Un ritardo nel pressing, una copertura approssimativa, la difesa male allineata: tutto questo è umano.
Ecco perchégli allenatori del presente e del futuro, circondati da staff degni della Nasa, dovrebbero allenare i loro uomini all’ineluttabilità dell’errore. Alla comprensione e alla valorizzazione dello sbaglio quale elemento di crescita: come assorbirlo, come fronteggiarlo, come gestirlo, e infine come superarlo. Dominando, psicologicamente e tecnicamente, il caos intrinseco nel gioco.
Forse è arrivato il momento di ripensare radicalmente quel tipo di approccio, molto popolare in Italia, che dal metodo di allenamento fino alla filosofia del successo incoraggia la cultura del perfezionismo («Vincere è l’unica cosa che conta»). Giustificazionismo privo di visioni di lungo termine. Demonizzazione o, peggio, psicosi dello sbaglio. Ricerca della scorciatoia e del fine (il successo) ad ogni costo.
Si avverte la necessità di una solida cultura dell’errore.
La cultura del miglioramento e della performance.
La cultura del coraggio e del giocare a viso aperto:
prendersi un rischio per fare la differenza,
anche a costo di sbagliare
E sempre più, al contrario, si avverte la necessità di una solida cultura dell’errore. La cultura del miglioramento e della performance. La cultura del coraggio e del giocare a viso aperto: prendersi un rischio per fare la differenza, anche a costo di sbagliare, per spaccare l’equilibrio, anziché rassegnarsi all’esecuzione dell’input schematico ripetuto per minimizzare la percentuale di errore. Rifuggire dal tiki taka nella sua peggior accezione, che sconfina nella melina a due tocchi detestata dallo stesso Pep Guardiola, e ancor di più dal suo storico braccio destro, Juanma Lillo.
«Non ci rendiamo conto del casino che abbiamo combinato – ha dichiarato Lillo nel corso di una discussa intervista a The Athletic – Abbiamo globalizzato una metodologia che si è insinuata in tutto il mondo senza essere davvero compresa: se tu vai ad una sessione di allenamento in Norvegia o in Sud Africa le indicazioni saranno le stesse. È tutto un gioca a due tocchi, passa qui, passa là. Tutti si allenano a due tocchi, giocano a due tocchi. Abbiamo imposto il “due-tocchismo”. E questo non è positivo, perché sono sempre meno i giocatori dotati di abilità apprese per strada, ricchi di fantasia e di creatività. Penso per esempio a James Maddison, un giocatore audace e coraggioso: ogni idea che nasce dalla sua testa sarà cento volte migliore delle idee che troveresti in qualsiasi conferenza di allenatori».
Potremmo proseguire ancora a lungo, e finire per annoiarvi, senza però mai essere efficaci come Michael Jordan. Probabilmente il più grande vincente di sempre. Specializzato in errori. Sì, avete letto bene: non c’è alcuna contraddizione.
«Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri – ammise un giorno Jordan – Ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito. Molte, molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto».
Quando aveva 16 anni, Michael Jordan venne provvisoriamente scartato dalla squadra del college perché fisicamente acerbo rispetto ad altri compagni. Nel corso della sua carriera professionistica Jordan avrebbe poi sbagliato migliaia e migliaia di tiri, talvolta decisivi, nelle più grandi arene della Nba, contro i più grandi cestisti del Nordamerica e del mondo.
Gli errori commessi dai suoi ex compagni furono molti meno: erano rimasti al college.