sbagli

N.43 ottobre 2023

rubrica

“Io capitano”, un film sbagliato o lo sbaglio di essere vivo

Il film con cui Matteo Garrone racconta una storia di migrazioni ha acceso un dibattito che ha coinvolto politica, critica e pubblico. Ma al di là delle motivazioni, sembra che a infastidire sia proprio "il fatto che esista"

Ha suscitato un gran dibattito, prima e dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche, l’ultimo film di Matteo Garrone, Io Capitano, premiato alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia con il Leone d’argento. Nell’estate italiana, infuocata non solo per il caldo, ma per i numerosi sbarchi di migranti sulle coste italiane, il racconto del viaggio di due cugini dal Senegal verso l’Europa ha arrecato un certo disagio.

Alla politica, in primo luogo, preoccupata dover prendere posizione di fronte a un film.

E ai critici cinematografici che hanno fatto fatica a riconoscere nell’ultimo lavoro di Garrone dei meriti estetici pari ad altre sue opere.

Dunque si tratta di un film sbagliato?

“Io capitano” (foto 01 Distrbution)

Troppo impegnato per alcuni, troppo poco per altri; quasi didascalico sotto diversi aspetti, oppure stilisticamente troppo eterogeneo; furbo nella scelta di cavalcare un tema attuale per imporsi all’attenzione pubblica, oppure deficitario al punto da rappresentare un’occasione persa?

Vorrei lasciare la risposta al lettore e soprattutto allo spettatore, senza sostituirmi al lavoro di critici e opinionisti; casomai analizzando le motivazioni e i soggetti che inducono a pensare a un film come a un (possibile) sbaglio.

Il pubblico, in primo luogo.

Hanno ragione o torto gli spettatori nel giudizio sul film? Il box office pone Io Capitano al sesto posto della stagione attuale, con 630.000 presenze e 3.720.000 euro di incassi: un risultato importante, per quanto ben lontano dai 3.700.000 spettatori di Oppenheimer e dal milione e ottocentomila di Barbie. Poiché il cinema (in sala) rappresenta sempre un atto d’acquisto preventivo, occorrerebbe interrogare gli spettatori dopo che escono dalla sala; oppure valutare l’effetto del passaparola che comunque, per il film di Garrone, è ancora piuttosto forte. In ogni caso il valore e l’importanza di un film non si possono racchiudere in un giudizio lapidario (qualunque sia: bello, interessante, orribile…). Se una pellicola riesce a far discutere, se suscita domande e curiosità, significa che non satura in sé il proprio significato, ma apre a un bisogno di senso che coinvolge attivamente lo spettatore nel processo di interpretazione. Quando in sala si riaccendono le luci ma si trovano spettatori che rimangono fermi, immersi nei loro pensieri e alla ricerca di quell’attimo necessario per tornare a fare i conti con un ambiente reale e con il proprio corpo, forse il film ha raggiunto il suo scopo. Che non è (tanto) quello di saziare emozioni istantanee, quanto di aprire a interrogativi, quesiti, ricerche. Nell’attivare un corpo a corpo con lo spettatore per chiedergli di rivelare il senso di immagini forti o passaggi poetici il film raggiunge (sempre) il suo scopo.

A sua volta la critica ha fatto trapelare – senza però troppi clamori – alcune riserve su Io Capitano.

Non è stata convinta in primo luogo dall’alternanza di stili e registri, che spaziano dallo sgargiante cromatismo del periodo senegalese all’avvincente e spoglia intensità del deserto carico di metafore; dal crudo documentarismo delle prigioni libiche all’eroismo della parte finale, sintetizzato dall’esclamazione che dà il titolo al film.

Anche la struttura narrativa, reputata troppo semplice e vagamente popolare ha disatteso in parte le aspettative degli esperti, così come l’eroismo del protagonista Seydou, che pur in mezzo a esperienze orribili, non sembra mai vacillare.

Se una pellicola riesce a far discutere,
se suscita domande e curiosità,
significa che non satura in sé il proprio significato,
ma apre a un bisogno di senso

Si tratta di osservazioni che Garrone sembra in qualche modo aspettarsi, dal momento che nelle interviste ha cura di spiegare che il suo non è solo un racconto realista, piuttosto un’odissea moderna intrapresa da ragazzi comuni, mossi più dai sogni coltivati su YouTube e i social network che dallo stretto bisogno. Consapevole della funzione anche didascalica del suo lavoro, soprattutto per avvicinare i più giovani a una conoscenza più articolata del problema migratorio, si affida ai suoi attori per spiegare le condizioni di realizzazione del film, tra l’inesperienza dei protagonisti, il ruolo dell’interpretariato (fondamentale per arrivare alla loro lingua), e la scelta delle location in Senegal, Marocco e Italia.

E anche quando il regista abbandona il registro realista per ricorrere alla suggestione dell’immagine-simbolo, come quella della donna il cui spirito vola nel deserto (dopo la morte) dando la mano a Seydou, è per sublimare un dolore inenarrabile.

«Ad esempio – ha raccontato Matteo Garrone in una intervista al Corriere Nazionale – la scena in cui Seydou cerca di salvare la donna nel deserto: nei primi ciak era stato molto vero, semplice e intenso ma durante il terzo in particolare ha cominciato a piangere senza riuscire a smettere e il motivo (che mi ha rivelato poi solo la sera) era che durante la scena aveva rivisto il padre che è morto anni prima tra le sue braccia. Con loro è andata spesso così. Sono emozionanti, senza alcuna sovrastruttura accademica o narcisismo».

Seydou Sarr in “Io capitano” (foto 01 Distrbution)

Io Capitano è stato soprattutto criticato da numerosi attivisti, militanti ed esponenti politici: perché pubblicizza il tema delle migrazioni, oppure le presenta in modo troppo edulcorato. E ancora, perché è opera di un occidentale (dotato di mezzi di produzione cospicui) che racconta nella lingua wolof e in francese una storia di “altri” secondo il loro punto di vista.

Forse, ciò che più infastidisce (e rivela) i sostenitori della polarizzazione tra l’indifferenza e l’eccesso del politically correct, è il fatto che il film del regista romano esista. Oppure che esistano storie (reali) di ragazzi costretti a fare gli scafisti e come tali incarcerati e condannati, come quelle di Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia, che in diversi modi forniscono lo spunto per la sceneggiatura.

Oggi, dopo che l’eco del dibattito si è già spento, sepolto sotto le bombe che portano distruzione e morte a Gaza, vien da chiedersi se, per una società come la nostra, l’errore, lo sbaglio sia il film. O se piuttosto, come titolava una commedia di Aldo De Benedetti (epurato dal fascismo), lo sbaglio non sia quello di essere vivi.