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N.43 ottobre 2023

giochi

Scacco matto al “manuale”: è la mossa sbagliata a fare la partita

Un giocatore di scacchi cerca la perfezione, ma sa che sono le sviste a fare la differenza. Tra carbonio e silicio, strategie segrete e Città invisibili, abbiamo parlato di errori all'Accademia Scacchistica Cremonese e forse... è stato un errore

Chiedere a degli scacchisti di abbinare il concetto di “sbaglio” al gioco degli scacchi, è stato un errore! 

«Il discorso sarebbe lungo…» esordisce Franco. In effetti chi ama giocare a scacchi è abituato a pensare, a riflettere, a tornare sui propri pensieri, ad approfondirli e ad ampliarli, a sviscerarli in ogni possibile variante. Questione di abitudine e di propensione al pensiero critico, alla particolarità di non vedere una mossa come il semplice movimento di un pezzo, ma piuttosto come la preparazione o la conseguenza, di una tattica o di una strategia, di un sistema complesso che rende fascinoso e misterioso, un movimento in sé semplice e naturale.

Chi gioca a scacchi è inoltre abituato ad agire, anche quando farlo significa assumersi un rischio, una responsabilità, una possibilità che la mossa non sia quella corretta. Decide quindi di confrontarsi con la propria vulnerabilità, con i limiti e le frustrazioni che ci contraddistinguono e ci definiscono, ma soprattutto che, come specifica ancora Franco, «testimoniano che siamo fatti soprattutto di carbonio e non di silicio (i due elementi che, nello slang degli scacchisti, simboleggiano l’umano e il giocatore artificiale, il motore computerizzato)».

Già, perché i computer non sbagliano, riescono a trovare sempre la mossa corretta, quella che in prospettiva ci permetterà di vincere o di finire la partita con una “patta”.

Antonio sostiene infatti che, se i due contendenti non sbagliassero mai durante una partita, l’equilibrio iniziale fra gli opposti schieramenti non verrebbe mai rotto e tutte le partite finirebbero in parità; Luca parte dal principio che la partita è una espressione di logica che, a gioco corretto deve terminare pari, ovvero come comincia finisce.

Questione di equilibri, dunque, come se una condizione, affinché possa esistere, debba rappresentare la perfezione in ogni sua consequenzialità. Mosse naturali, mosse perfette, mosse che permettono alla Terra di compiere un’orbita intorno al Sole e contemporaneamente girare su se stessa, mantenere certe distanze dal Sole e dagli altri pianeti, in modo da formare un ecosistema perfetto, in grado di generare forme di vita e di sopravvivere nei secoli fluttuando in un punto indefinito, appartenente ad un Universo costellato di asteroidi e nebulose, di ignoto e di lembi di materia che si ripiegano inspiegabilmente su loro stessi. 

A ragionarci così sembrerebbe che il silicio possa dare torto al carbonio e che le macchine artificiali possano eliminare quel margine di errore e di sbagli che creano disequilibri e generano sconfitte. A questo punto la specie umana sarebbe lo sbaglio più grande, quella variabile fuori controllo che andrebbe a minare l’intero sistema di perfezione stesso che le ha permesso di esistere.

«Gli sbagli negli scacchi
come nella vita 
ti obbligano a cambiare
punto di vista e percorso»

C’è qualcosa che mi sfugge ed è il solito confine intangibile che fa allontanare la risposta ogni volta che penso di averne raggiunta una.

«Come si può coniugare la purezza del gioco con il fattore umano, puramente speculativo? Occorre applicare una tolleranza al concetto di errore, distinguendo fra “errore” e “imprecisione”». Luca la vede in questo modo e dargli torto è difficile, così come lo è il concetto di differenziazione che ci presenta e che viene ulteriormente complicato da Franco, quando aggiunge il termine “svista” a questa complessa disequazione.

Antonio aggiunge che, secondo lui, il connubio sbagli e scacchi, o errori e scacchi, è strettamente ed indissolubilmente legato: non ci sarebbero gli scacchi se non ci fossero gli errori. Paolo vede in questa affermazione un parallelismo con l’esistenza, perché a suo avviso «gli sbagli negli scacchi come nella vita (sia i tuoi, sia quelli degli altri) ti obbligano a cambiare punto di vista e percorso».

«Ma gli scacchi non sono la vita, assomigliano di più a un laboratorio in cui poter dimostrare, soprattutto a se stessi, che le cose, grazie alla nostra forza di volontà, al nostro impegno, alla nostra determinazione, potrebbero andare meglio. Magari questo atteggiamento potrebbe avere un valore anche per la vita. Gli scacchi costituiscono un piccolo-grande mondo, che noi possiamo più o meno dominare-possedere-padroneggiare. Gli scacchi non sono fatti per un pensiero “debole”».

«Ma gli scacchi non sono la vita,
assomigliano di più a un laboratorio
in cui poter dimostrare, soprattutto a se stessi,
che le cose potrebbero andare meglio»

«Gli scacchi non sono la vita», Franco docet. E questa frase continua a ronzarmi in testa. Mi investe il ricordo di una lettura di Italo Calvino, che nel suo Le Città Invisibili, analizzava le battaglie del Gran Kan attraverso una scacchiera, raccontava città, ricercando sistemi perfetti o mosse sbagliate. Nei suoi dialoghi emergeva quanto detto Antonio, che si migliora nel gioco solo passando attraverso l’errore. Una metafora della vita, un parallelismo con il percorso di ciascuno di noi, obbligati a cadere per imparare a rialzarci, indirizzati a fallire per poter capire come riuscire in qualcosa. Tutti concentrati verso un obiettivo, verso la conoscenza, l’apprendimento, un risultato; verso la contrapposizione tra il bianco e il nero, inabissati in un dualismo che ci insegue dalla nascita, che ci convince di dover essere da una parte o dall’altra, o che l’errore sia un dettaglio irrilevante, mentre la mossa giusta sia da inserire in un manuale. In questo modo perdiamo il senso del nostro cammino o, meglio, veniamo risucchiati in un percorso che vede il continuo contrapporsi di domande e di risposte, di avanzamenti o di retrocessioni, di accettazione o di rifiuto.

Ma una mossa da “manuale”, ci finirà dentro insieme alla mossa sbagliata, perché la partita che pensiamo di giocare da soli è in realtà una partita condivisa, che dovrebbe assumere un senso molto più grande e dimostrarci come in fondo non possa esistere nulla senza il suo contrario, perché ogni cosa risulta essere indissolubilmente legata e ha la necessità di esprimersi in più direzioni.

Un concetto di errore che Antonio definisce puramente umano, perché puramente umana è la presunzione di poter dare un connotato oggettivo a qualcosa; senza valutare che, in realtà, non comprendiamo praticamente nulla di ciò che è intorno a noi.

Per questo motivo il Gran Kan più provava ad immedesimarsi nel gioco e meno ne percepiva il senso. Fino a quando non capì più quale fosse la posta in palio, la vincita o la perdita e il fine di ogni partita. Perché a forza di scorporare le sue conquiste fino all’essenza, era arrivato alla conquista definitiva e alla consapevolezza che tutti i tesori in suo possesso altro non erano che involucri illusori, poiché tutto si riduceva ad un quadrato, nero o bianco, ad un quadrello di legno piallato, al nulla.

Ho interrogato le menti dell’Accademia Scacchistica Cremonese per capire che accostamento ci fosse tra il gioco degli scacchi e gli sbagli. È stato un errore. Un errore del quale si potrebbe parlare a lungo e che mi ha portato a riflettere, ad attraversare diverse prospettive, tra considerazioni che potevano sembrare sviste, altre che assomigliavano ad imprecisioni, altre ancora ad errori o a sacrosante verità.

Ho provato ad accostare l’inaccostabile, perché già appartenente ad un’unica entità, che cerchiamo dall’alba dei tempi di contrapporre e dividere: un nulla, uno scacco matto che, per quanto possa essere fatto di sbagli, di errori o di mosse giuste, arriverà per tutti, spazzando via domande, risposte e accomunando ognuno di noi, forse, in un qualcosa di finalmente unico.