domani

N.07 Gennaio 2020

UN PADRE

Il mistero della fiducia
sull’isola di Ale

«Si chiama aspettativa di vita. Breve, hanno sempre detto» Un padre può impazzire o aggrapparsi alla fiducia che accende il bello anche nell'inaspettato

Quanto domani può esserci se si nasce così? Quanti giorni, ore, o respiri – il respiro lo senti? Respira ancora o no?
Sono stati un mistero sin dall’inizio il presente e il futuro di Alessandro. E anche una somma di certezze che per un padre sono pugnalate: non camminerà (è così), non parlerà (infatti), non potrà vedere (è successo da subito), non mangerà per bocca (ha smesso a 1 anno quando ha cominciato la nutrizione parenterale, cioè attraverso un sondino collegato allo stomaco). Tutto il resto – che è sentire, piangere, ridere, soffrire, aver bisogno di un contatto fisico costante – erano e sono legati a una temporalità non prevedibile. Si chiama aspettativa di vita. Breve, hanno sempre detto. Breve quanto? Mistero. Un mistero sul domani.
Così si può impazzire. Ci si può torcere lo stomaco supponendo che non manchi molto, che da quella polmonite non uscirà, che l’epilessia, le bradicardie, l’insufficienza respiratoria cronica o chissà cos’altro alla lunga lo sfiniranno.
Mi è successo. Mi succede.
Ma non è tutto.

I 14 anni di Ale
sono una linea retta
di fiducia
verso chi lo ama

In questo oceano di limiti incorreggibili, qualunque padre cerca una qualche isola di bene, di inaspettato bello. E ci si aggrappa. Ce ne sono a decine, nella vita di mio figlio. Isole piccole, perlopiù, ma anche vaste spiagge di certezza e di conforto. Accadono dirompenti o silenziose, di una brevità fulminea o durature e crescenti.
Sono fatti.
Il tornare a casa da certi ricoveri, per esempio. Così critici da viverli col fiato sempre trattenuto.
Il bene smisurato che gli vedo gravitare intorno – di sua madre, sua sorella, i fratelli, i nonni, gli zii, gli amici nostri che sono anche suoi e vengono per lui.
La sua felicità: i sorrisi e i suoi “canti” sono la mia pace e la mia commozione.
Ma l’isola più grande sui cui approdo è un’altra. Si chiama fidarsi. Non c’è giorno, e nemmeno notte, in cui Alessandro non si abbandoni nelle mani di qualcuno: girato, coccolato, sollevato, svestito-lavato-rivestito, la ginnastica, la musica che gli fa sentire Fortu (sua sorella), le carezze e le dita in bocca di Samu (il fratello minore), i massaggi la sera, le parole sussurrate all’orecchio.
I 14 anni di Alessandro sono una linea retta di fiducia verso chi lo ama, forse l’unica cosa dritta e ininterrotta che la sua vita ha da sempre. È questo che lo fa esistere. È questo che fa esistere chiunque: accorgersi che soli siamo niente, ma tutto può essere vissuto se ci fidiamo del bene di qualcuno.
I giorni con Alessandro sono imparare questo. Sono un’educazione lenta e paziente a scoprire che la strada per essere felici non la decidiamo noi. Se lo dimentico, ci sono gli occhi e le parole di mia moglie: «Prima osserva e poi pensa», dice spesso. E poi qualche grande amico, che come mio figlio si muove nella certezza di dipendere da un Altro: vivo perché Lui vive in me.
Mentirei se dicessi di aver capito tutto.
Sono pieno di domande sul senso del dolore e su ciò che accade ad Alessandro, e forse le avrò per sempre. Interrogarsi è un bene: serve a tenerti a galla.
Negli anni, negli incontri fatti, nell’amicizia con testimoni veri e nel crescere della mia famiglia, tutto ha preso, pian piano, la forma di un disegno. Di un grande dipinto le cui parti si ricongiungono a poco a poco e l’occhio attento si accorge di un capolavoro. Di una bellezza straordinaria sia pur incompleta.
Il domani di Alessandro, allora, non è più un mistero.
Il domani di Alessandro è fatto dal Mistero.
Come i suoi anni fin qui. Come è oggi.
Ci sono giorni, o anche solo attimi, in cui la mia paura si acqueta. Si dispone silenziosa in un angolo, perché l’unico spazio in me è l’attesa. È il desiderio che una Sapienza più grande della nostra si mostri ed io possa vedere le meraviglie che compie.