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N.02 Giugno 2019

RIVOLUZIONI

Il nostro Sessantotto: una storia da… matti

Nell'anno della contestazione Franco Basaglia cambia per sempre il rapporto con la malattia mentale E a Cremona il dottor Rossi apre le porte del manicomio a un gruppo di liceali

foto di Jon Butterwort on Unspalsh

«Per i padri la Cina, l’Africa, l’America Latina semplicemente non esistevano: fuori dalla cultura eurocentrica c’era il vuoto, il buio, al massimo il folklore. Per i giovani, invece, ci sono le idee, le proposte, se volete le illusioni…». Ecco il vecchio Bocca, che poi, con i suoi 48 anni, tanto vecchio allora non era. Eccolo che da una lontana pagina di giornale, con i suoi modi ruvidi e diretti mi aiutava a capire che cosa era stato fra le altre cose il Sessantotto. Quella matassa su cui stavo lavorando cercando di sbrogliarla un giorno dopo l’altro in vista dell’anniversario tondo dei cinquant’anni (e non potevo certo contare sulle mie forze, che erano solo debolissimi e sparuti ricordi). Era stato una faccenda tra padri e figli, intanto. La rottura di un patto di soggezione, con i figli che pretendevano la ribalta e guardavano a nuovi orizzonti.

Era stato una faccenda
tra padri e figli
La rottura di un patto
di soggezione

Sulla carta geografica, l’America Latina o la Cina, appunto, o quel piccolo paese dell’Estremo Oriente che allora, nel 1968, teneva ormai da due anni in scacco la grande potenza americana. Era un mondo «altro». Da sostenere, da difendere, da includere? In parte, o forse era solo un’intenzione collaterale, perché il terzomondismo degli albori si nutriva maggiormente di critica e denuncia dell’invadenza «imperialista» a stelle e strisce: era più contro la «sporca guerra» del Golia americano che in sintonia con il Davide vietnamita. Un mondo «altro» che restava distante e idealizzato.

I fermenti degli anni Sessanta, però, portarono a galla anche l’«altro» della porta accanto. Anzi, fuor di metafora, col tempo scardinarono quella porta. Parlo dei malati di mente, declinazione quanto mai diretta e perturbante dell’«altro». Altri da sé e dal mondo, esclusi e reclusi, matti da allontanare, matti da legare (quanto ha annacquato e svilito una frase d’uso comune, ormai scherzosa, il senso vero delle parole…) e donne, bisogna dire, tante donne ben al di sotto della soglia della malattia mentale, ma che pativano l’emarginazione familiare e sociale perché adultere (ancora un reato fino a quel 1968) o prostitute o semplicemente irrequiete e ribelli.

Nel 1968 Franco Basaglia pubblica L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. Nel libro racconta al grande pubblico l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, che dirige dal 1961 e in cui ha eliminato tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie a base di elettroshock e ha aperto i cancelli dei reparti. Il processo di integrazione avviato da Basaglia portò nel 1978 alla riforma dell’assistenza psichiatrica in Italia con la storica, per quanto imperfetta, legge 180, e l’anno successivo alla prima chiusura, a Trieste, di un ospedale psichiatrico.

«La liberazione dei matti
è stata l’unica cosa
a cui ho partecipato
politicamente riuscita»

RENATO ROZZI

Anni dopo il ’68, ma prima di quella riforma, anche noi, un gruppo di studenti del Manin di Cremona in seconda o terza liceo, toccammo con mano. Forse era l’onda lunga del Sessantotto (che pure era una pallida memoria: assemblee, scioperi qualche volta, jeans e classi miste erano un corredo naturale, che sembrava nostro da sempre), ci mettemmo a studiare e discutere di questi altri mondi oltre i nostri orizzonti scolastici: il carcere, il manicomio…

Professoressa di italiano era la Patria (poi, maturi e laureati, per molti è diventata semplicemente Renata) che un po’ ci assecondava e un po’ ci guidava. Un giorno ci portò in classe suo cognato, Renato Rozzi, che allora stava molto meno a Cremona: psicologo e psicanalista, aveva lavorato all’Olivetti di Ivrea, in fabbrica con gli operai, aveva insegnato a Trento negli anni della contestazione ed era stato per un periodo proprio a Gorizia da Basaglia (l’avrebbe ricordato in seguito come «il periodo più bello della mia vita, la liberazione dei matti è stata l’unica cosa a cui ho partecipato politicamente riuscita»). Fu Renato – anche lui dopo è diventato semplicemente Renato – ad aprirci per un giorno le porte del manicomio di via San Sebastiano, e i miei compagni ed io vedemmo quei volti e quegli sguardi, le camere, i letti, l’abbandono. Incontrammo in una parola questo «altro» che non conoscevamo e che ci fece rabbia paura tenerezza. È stato, in piccolo e in differita, il nostro Sessantotto.