silenzio

N.05 Novembre 2019

RACCONTI D'INCONTRI

Nella stanza di Luca cala il silenzio di Dio

Le stanze di ospedale sono tutte inquietanti, ma forse alcune lo sono di più. Sicuramente lo era quella in cui a soli cinque anni ci ha lasciati Luca. Aveva detto in un momento di lucidità alla mamma, mentre era ricoverato in un’altra città, di voler tornare a casa. Lo hanno accontentato, anche se il desiderio si è infranto sotto i colpi efferati di una malattia irreversibile.
Ricordo il silenzio che c’era in quella stanza, rotto solo dal segnale intermittente dell’infusore. I genitori di Luca letteralmente in ginocchio, ai piedi del loro piccolo. Io, maldestro prete, e il primario del reparto un poco più in là. Ci accomunava tutti il silenzio che ciascuno cercava nelle ultime ore di vivere, riempire, esorcizzare come poteva. Quel silenzio mi è sempre rimasto dentro. Come non ho mai dimenticato le poche parole che il papà di Luca mi aveva rivolto prima di congedarmi: «Grazie, perché non ha detto nulla».
Tutto mi sarei aspettato, dalla protesta alla bestemmia, dal grido al pianto, tranne che quel «grazie», associato a quel «detto nulla» che incastonava una veglia silenziosa fatta da persone così diverse. In quella stanza palpitavano gli affetti, si muoveva la scienza, c’era anche un funzionario della religione. Ma tutti avevano scelto il silenzio.
Luca ci avrebbe lasciato dopo qualche ora. Era una giornata afosa di agosto, come quelle delle nostre parti, dove spesso non tira un filo di vento e tutto sembra fermo, troppo stanco, troppo riarso.

«Grazie
per non aver
detto nulla»

Chissà quante esperienze simili molti potrebbero raccontare. E meglio. E più da vicino. Magari da un dentro ancora sanguinante.
Nel tempo mi sono convinto che quel silenzio aveva giustamente imposto la sua presenza. Di più: aveva sconfitto certe retoriche che a volte spingono a dilaniare un dolore, invece che lenirlo e, forse, gettano anche su Dio qualche ombra funesta.
Negli anni ho interrogato tante letture ed ho cercato di mettere in fila i diversi punti di vista, sostando sugli snodi in cui si incrociano la protesta e la resa, la fede più pura e la lontananza più dura. Là dove c’è silenzio. Ho chiesto anche a diversi giovani di raccontare il mistero del loro imbattersi con le mille variazioni di quello stesso silenzio e ne è nato un piccolo libro, volutamente e lapidariamente chiamato Dolore.
Mi sono imbattuto con più vigore in una forma del tutto paradossale e drammatica di quel silenzio: quello che riguarda Dio; un silenzio che a volte la preghiera, il rito, la pratica non possono né smorzare né riempire. Qualcuno, la voce di questo teologo, la denuncia di quell’ateo, la strenua resistenza di una madre che ricomincia o di un figlio che non capisce, mi ha riportato paradossalmente al cuore della fede cristiana: dove Dio non si presenta a capo di eserciti vittoriosi, ma si dà nella forma del crocifisso.
Questa particolare “forma di Dio” si propone per il Cristianesimo addirittura come quella definitiva, quella permanente (eh sì, perché il Risorto è pur sempre quel crocifisso che non dimentica, che non cancella, che non oltrepassa con superiorità un male provvisorio), quella inchiodata in ogni tempo e in ogni spazio. Ce lo ricordano le miriadi di croci appese ovunque, che lo si voglia o no.
Per questa forma la Scrittura ha usato l’espressione kenosi, che ha a che fare in Greco con l’azzeramento, lo svuotamento… un po’ in parallelo alla sovversività scandalosa propria dello “zero”, anche quello matematico. E i teologi ci hanno ricamato sopra, con quelle parole estese, stirate che riempiono la bocca, ma capaci di far tremare di paura e di vertigine: forma kenotica, condizione kenotica… Dio kenotico. Ma oltre le parole più o meno felici, più o meno tecniche, mi appare vero e chiaro che c’è un rapporto stretto tra il silenzio respirato e quasi toccato nella stanza di Luca e il silenzio che avvolge il crocifisso: segno irreversibile – si dice – di un amore incomprensibile ed incommensurabile. Un amore che non salta sul male innocente, nemmeno lo svia o lo sminuisce, ma lo abita. Von Balthasar, teologo svizzero del secolo scorso, arriverà ad affermare che proprio lì, nella carne del crocifisso, il male entra in Dio. Senza teorie o sistemi, ma con evidente vertigine. Con poche parole, dense come pietre, Balthasar si spinge nelle regioni estreme del silenzio: quello dell’insufficienza umana e del mistero insondabile del divino. E si tiene in buona compagnia: dialoga a distanza con un pezzo importante della cultura degli ultimi decenni (dal filosofo ebreo Jonas de Il concetto di Dio dopo Auschwitz ai Comandamenti del regista Kieślowski, dai Fratelli Karamazov di Dostoewskij all’occhio di Dio che piange sul figlio morto in The passion di Gibson).
Di più: tocca il nervo vitale della proposta evangelica che riconsegna ogni morale, ogni religione, ogni pensiero a quel corpo crocifisso che tutti i Luca interpellano, che gli infiniti lutti dell’umanità abbracciano. Per qualcuno troppo poco, per qualcun altro un trucco consolatorio, per la fede cristiana un silenzio sferzante ed eloquente. Immagino che un tratto importante del cammino di fede, ma anche della sua compagnia più prossima, la non-fede, coincida anche con l’abitare quel silenzio, con lo stare accanto a Luca, nei pressi di quel Crocifisso e dei tanti Crocifissi.