mode

N.08 Febbraio 2020

BON TON

La commedia della (mal)educazione

Una giornata nei luoghi d'incontro dalla stazione, al cinema osservando abitudini e tic di ordinario malcostume che accomuna le generazioni “È gentilezza dovunqu’è vertute, ma non vertute ov’ella; sì com’è ‘l cielo dovunqu’è la stella, ma ciò non è converso” (Dante Alighieri – Convivio)

Venerdì, ore 13. Un fiume di zaini multicolore scorre lento lungo via Palestro. I cancelli delle scuole superiori riversano sui marciapiedi due colonne parallele di studenti. Un nugolo scomposto di biciclette procede a zigzag tra i pedoni che, senza infamia e senza lode, avanzano a passo spedito verso l’autostazione. Destinazione: il weekend. Le caviglie nude biancheggiano sotto il risvoltino dei pantaloni, contrappasso giudizioso del jeans a vita bassa che fino a pochi anni fa lasciava in bella vista la mezzaluna lombare. Le chiacchiere si mescolano agli sguardi assorti di chi cammina solo, isolato tra due auricolari minimal o sotto vistose cuffie over-ear. I più espansivi passeggiano tenendo in tasca chiassose casse portatili, tanto piccole quanto potenti, alimentate a musica trap. Gli occhi si schivano come le spalle, riducendo il contatto ad una prossimità monadica, intatta e discreta. Non si può dire lo stesso di un centauro parcheggiato di fronte all’ingresso di un liceo. Sigaretta in una mano, cellulare nell’altra, incurante dei dardi di fuoco lanciati da chi è costretto allo slalom urbano, divenuto disciplina olimpica dopo il lancio – a terra – del mozzicone. In pochi minuti l’esercito di suole raggiunge viale Trento e Trieste, grigia come un Acheronte d’asfalto. Un Caronte in pettorina gialla si sbraccia per alternare il flusso di auto e di persone senza troppo successo. Rosso o verde non importa, è questione di priorità: prima passo io. Non sempre l’intraprendenza incontra il favore del prossimo, e nel flusso di anime indisciplinate un Cerbero automobilista abbaia fuori dal finestrino di un’utilitaria denunciando in terzine irripetibili una precedenza mancata.

Le mode dei giovani d’oggi – llustrazioni di Paolo Mazzin

La folla si disperde nel piazzale dell’autostazione, per poi raggrumarsi in capannelli fitti sotto le pensiline. Sulla soglia della biglietteria, cinque adolescenti aspirano tabacco e noia in un’attesa da Purgatorio, calpestando un tappeto di cartacce e cicche consumate. Per ingannare il tempo improvvisano qualche mossa di arti marziali, giusto il necessario per riaffermare la supremazia del maschio alfa. Un guizzo anima i ritardatari, che in uno scatto da lince mollano i “bro” e guadagnano il predellino dell’autobus, per poi sprofondare con la schiena nel sedile e la testa nello smartphone, ostaggi dell’apatia pendolare. Come un Gerione meccanico, il serpentone blu formato dagli autobus lascia spazio al silenzio della “città dolente”, sotto i raggi indolenti del sole di febbraio.

Rosso o verde
non importa,
è questione di priorità:
prima passo io

Risalendo verso il centro le vie si popolano di animali a sei zampe, due umane e quattro canine. È il momento della passeggiata ai giardini pubblici di piazza Roma: immersi nel verde e dimentichi dei cartelli di divieto, i padroni premurosi allentano il guinzaglio per lasciar pascolare i cuccioli nell’erba, senza badare agli eventuali souvenir lasciati in loco. D’altronde si sa, dai diamanti non nasce niente…

La negligenza si combatte con la cultura, eppure nemmeno la biblioteca offre un angolo di paradiso nella selva oscura della maleducazione. Tra gli scaffali antichi, il fruscìo della carta si mescola all’insistente ticchettio dei laptop schierati sui banchi di consultazione, lasciando poco spazio alla meditazione. Qualcuno sgattaiola in bagno per una telefonata clandestina, zona franca ma non immune al mal costume: “Dopo ripetuti casi di uso improprio dei servizi”, un cartello a lettere cubitali invita i gentili utenti ad un “comportamento più civile e rispettoso dell’igiene pubblica”. Non resta che fare tappa al centro commerciale, raffigurazione allegorica e più che mai realistica della bolgia infernale. Avari o prodighi, i frequentatori “anonimi e irriconoscibili” dell’ipermercato macinano chilometri di corsie spingendo carrelli carichi di merce e pesanti come massi. La traiettoria è un optional, lo spazio prossemico è utopia. Cani al guinzaglio e bambini in go-kart elettrico contribuiscono alla confusione generale, alimentata dall’abbacinante richiamo dei saldi di fine inverno. In cima alla scala mobile compare l’insegna del cinema multisala, insolito miraggio e degno rifugio per chi rifugge il girone degli acquisti. In sala si spengono le luci e si accende la magia, disturbata a intermittenza dai ritardatari. Entrano alla spicciolata e come lucciole confuse arrancano lungo la scalinata, illuminando i passi con il flash del cellulare. Un’accortezza che non basta ad evitare pestoni e inciampi più o meno rovinosi. La pellicola scorre veloce sul maxischermo, ma l’idillio è ancora lontano: le parole dell’attrice vengono masticate rumorosamente dalle fauci di uno spettatore ingordo di popcorn, mentre qualcuno improvvisa a mezza voce un compendio non richiesto sulla filmografia del regista di turno. Alzare gli occhi al cielo serve a ben poco, soprattutto se l’individuo seduto nella fila posteriore scambia la poltrona per il divano di casa e utilizza il poggiatesta altrui per appoggiare i piedi. Senza scarpe. Poco più in là, un tizio dall’aria vissuta e dall’inconfondibile profilo aquilino si passa una mano sul viso, e in un gesto esasperato borbotta qualcosa con disappunto. “Fatti non foste a viver come bruti”, par di capire. Ma se pure lui è riuscito a riveder le stelle, forse la dritta via non è smarrita.