piaceri

N.11 Maggio 2020

ANALOGICO

La selfistantanea e i dettagli da toccare

Ritrovare i piccoli piaceri analogici mentre dal giradischi il mondo passa da un oblò e i nostri sensi riprendono contatto

Forgive me for the delay – Perdona il ritardo
In questo video realizzato da Alisha Anderson per Emergence Magazine
l’artista riflette sul senso del tatto e di come il tocco – lungo i confini di una pietra piuttosto che su uno schermo – possa cambiare il contesto del nostro mondo
«Ho iniziato – scrive – a vedere la pelle come un ponte, non una barriera»

«E guardo il mondo da un oblò…»

L’arcinota rima di Gianni Togni gracchia attraverso la cassa di un giradischi vecchio modello. Non lo accendevi da anni, al punto che sul tasto premuto è rimasta l’impronta dell’indice a scalfire la polvere. Quasi non ci credeva nemmeno lui.

Con lentezza pachidermica, la testina argentata ha oscillato sulla superficie del vinile graffiando il suono, per assestarsi al terzo balzello sul dorso lucido del 33 giri che ora oscilla con disinvoltura. Eppure tua madre lo ascoltava sempre, ogni mattina, mentre preparava la colazione prima di portarti a scuola.

Ricordi ancora l’aroma diffuso dalla moka gorgogliante. La stessa che per qualche motivo hai riesumato dal fondo di un armadietto, affiancandola alla pregiatissima macchina per caffè alimentata a capsule gourmet. Così un grezzo cucchiaio di polvere bruna scippa la tazzina alla deliziosa “magia del Madagascar”, quella con la confezione cromata – manco fosse una moto – aggiudicandosi il piacere ruvido del palato.

Certo, con un paio di biscotti sarebbe meglio. Peccato aver terminato la farina con quell’ultima torta, dal tutorial trovato online sembrava tanto semplice…

Un po’ come i tortelli della nonna, che senza di lei non escono mai allo stesso modo.

Da quanto tempo però non affondavi le mani nella pasta all’uovo, da tirare a mano come i minuti che ti separano dalla sera.

Un po’ come i tortelli della nonna,
che senza di lei
non escono mai allo stesso modo

«Tiro due calci ad un pallone, e poi chissà…»

Già, chissà quante persone l’avranno canticchiata tra sé in questo periodo, affacciati alla finestra, spiando la strada deserta in pieno orario di punta. In poco tempo il nostro mondo si è congelato, come se fosse un gioco. Un, due, tre, stella. Oppure una sorta di nascondino speciale: il viso velato dalla mascherina, lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole, le mani isolate dai guanti di plastica. Finché qualcuno non libera tutti.

In cortile rimbalza lo schiocco ritmico delle suole di gomma di due bambine impegnate in una sfida a “Campana”, mentre nell’aria risuonano le note incerte di un flauto, che da anni non si sentiva più.

Ecco cosa succede: ci si guarda intorno e si notano i dettagli. Anche la pianta grassa sul balcone ha un aspetto migliore, ora che ti sei ricordata di lei. Sarà perché le hai parlato più spesso, ignorando lo sguardo perplesso del gatto di casa. Lui è l’unico che può permettersi di non mantenere le distanze. E per la prima volta – invece di schivarlo in corner mentre ti precipiti sul pianerottolo per andare in ufficio – hai il tempo di chinarti e accarezzarlo lungo il dorso flessuoso che vibra di fusa.

«Ho mille libri sotto al letto, non leggo più…»

Lo sguardo corre alla mensola dei classici, dove una pila di volumi funge da supporto per il tablet in caso di videochiamate. Improvvisando una torsione yoga – di cui domani ti pentirai – riesci a carpire il titolo sul dorso del tomo: «Alla ricerca del tempo perduto». Povero Proust. Lui ha speso l’intera vita cercando di catturare l’essenza della memoria, tu non riesci a ricordarti la differenza tra ieri e oggi. Non che prima fosse scontato, tuttavia macinare una routine serve a non soffermarsi sulle sottigliezze. Lo pensi mentre osservi una manciata di pezzi di puzzle sparsi alla rinfusa in un angolo del salotto. Una virgola nera su fondo azzurro cattura l’attenzione. Con il medio punti il tassello e lo fai scorrere verso il bordo dentellato della figura, là dove manca un’ala di gabbiano. Ora c’è. Bastava soffermarsi un attimo, magari cambiare prospettiva, un po’ come quando scatti una fotografia.

«Ho mille sogni in un cassetto, non lo apro più…»

Così torni in camera e lo fai, per recuperare tra i maglioni e le cartoline ingiallite la tua vecchia Polaroid. La punti verso il viso, stendi le braccia di fronte a te, fissi l’obiettivo.

Click.

Un ronzìo metallico ti consegna tra le mani un cartoncino bianco. Per quindici lunghi minuti – incredibile – rimani a fissarne la superficie lucida mentre cambia colore e delinea le forme del soggetto inquadrato. Lentamente, giusto il tempo d’indovinare i lineamenti del volto che emerge dallo sfondo. Ha l’aria divertita, un po’ scettica, una ruga che non ricordavi. Una specie di curva con gli angoli che guardano in su. Rispondi al sorriso e infili la foto in tasca. Per non perdere nulla, per non perderti più.