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N.06 Dicembre 2019

RUBRICA

La vita è meravigliosa (nonostante tutto)

Ci sono film che servono per piangere, oppure per ridere. Film che suscitano paura, ilarità, commozione, dinamismo, orrore, ribellione… E poi ci sono i film di Natale. Questi servono per rasserenarsi. Capostipite di tutti i film natalizi è La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life) di Frank Capra del 1946: una pellicola familiare ai pubblici di tutte le età anche grazie ai numerosi passaggi televisivi che ha conosciuto, sempre in occasione del Natale. Tratto dal racconto breve di Philip Van Doren Stern The Greatest Gift, il film viene concepito, co-prodotto e diretto da Frank Capra, rientrato in patria dopo l’esperienza della seconda guerra mondiale che lo ha visto impegnato al fronte come operatore e regista cinematografico. Apparentemente ne continua la poetica già espressa in Mr. Smith va a Washington (1939), incentrata sull’uomo medio americano diviso tra le tentazioni dell’individualismo e le esigenze della collettività, sul populismo e l’esaltazione dei buoni sentimenti.

Qui il protagonista è George Bailey, figlio di un uomo che ha costruito un consorzio edile popolare per gli abitanti di Bedford Falls, resistendo strenuamente alle minacce del banchiere Potter, padrone di buona parte della città. Capra tratteggia due personaggi inconciliabili e opposti. Solo e rattrappito, anche nei sentimenti, il vecchio Potter; dinamico e scattante il giovane Bailey che nutre sogni e ideali, coltiva amicizie e crea una famiglia numerosa.

Sono diversi anche nel modo di intendere il denaro: per l’avaro banchiere (memore del dickensiano Scrooge) esso va nascosto, difeso, e tutt’al più può essere nominato astrattamente in occasione di transazioni bancarie; Bailey invece lo mostra e lo maneggia senza reticenze, consapevole del suo valore d’uso e di scambio, considerandolo un mezzo di sopravvivenza per sé e soprattutto per gli altri (da Violet che sogna una vita lontana alla Sig.ra Davis che chiede alla cassa mutui 17 dollari e 50 centesimi indispensabili per campare), causa di repentine cadute e oggetto di inaspettati (e generosi) regali. I due volti del capitalismo non potrebbero essere più chiari.

Ma Bailey non è un santo. È un uomo frustrato, che ha dovuto rinunciare ai suoi desideri in più occasioni (alla laurea, al sogno di costruire grattacieli, di viaggiare e persino alla luna di miele) per far fronte alle necessità impellenti che gli si sono presentate, convinto di dover fare la cosa giusta – suo malgrado –, a dispetto del fratello e degli amici che, abbandonando la provincia, hanno conquistato ricchezza e onori nel mondo. Per questo ha accumulato rabbia e un’aggressività repressa, che sfoga violentemente nel momento della sua più cupa disperazione, quando non vede vie d’uscita alla catastrofe finanziaria che si sta per abbattere su di lui e, indirettamente, su tutti coloro che da lui dipendono.

È a questo punto che il film si arresta, e cambia registro. L’angelo Clarence – un “angelo di seconda classe”, ancora privo di ali, modesto ma tenace come il suo protetto – gli mostra un film: quello di una vita “altra”, di un mondo privo della sua presenza. E Bailey ha l’occasione, forse per la prima volta, di vedersi dall’esterno, sentendosi estraneo a una realtà che pure gli è familiare. L’angelo può così esprimere la morale del racconto: «La vita di un uomo è legata a tante altre vite. Quando questo non esiste lascia un vuoto… Vedi George, tu hai avuto una vita meravigliosa. Capisci che sarebbe stato un grave errore buttarla via?».

«Caro George,
ricorda che nessun uomo
è un fallito
se ha degli amici»

Clarence si rivolge, ovviamente, anche al pubblico, al quale offre lo spettacolo di un doppio incastro narrativo, mostrandogli un personaggio che, da fuori, guarda le vicende di un altro, proprio come accade abitualmente nell’esperienza spettatoriale. Anzi, ne cerca la complicità invitandolo a riconoscere le differenze tra la laboriosa Bedford Falls abitata da Bailey e l’algida e viziosa Potterville dominata dall’avido banchiere.

«Capra non è l’unico regista di It’s a Wonderful Life», scriveva Robert Sklar a proposito del film. «L’altro regista è la Divinità»: quella che, dall’inizio, organizza tutto il racconto di Bailey in un lungo flash back (con accelerazioni e momenti di sosta), ma anche quella che ascolta le invocazioni del disperato protagonista (convinto non saper pregare) e rende possibile, in ultima analisi, il miracolo. L’evento prodigioso è però duplice: la salvezza individuale e insieme la solidarietà di una comunità che si sente compartecipe della vita di ciascun membro. In questo senso è un prodigio che non risparmia ispettori bancari e funzionari, spronati a mettere il denaro – mai visto con tanta abbondanza prima – a servizio delle buone cause per potersi unire al gioioso (e liberatorio) canto natalizio.

Qui mi pare che si concentri il significato più profondo del cinema natalizio. Il film si fa per lo spettatore un apologo, un invito esplicito ad astrarsi dall’ordinarietà del quotidiano per vedersi da fuori. E per tornare poi a considerare la vita con occhi nuovi, fiduciosi di un intervento altro (o Altro) provvidenziale, che riconcili il singolo con la collettività. Per questo ci sono necessari i film di Natale: racconti che, con l’evidenza delle immagini, e con la sapiente, accorata narrazione di registi come Capra, tornino puntualmente, ripetutamente a ricordarci che La vita è meravigliosa. Nonostante tutto. E nonostante il denaro.