silenzio

N.05 Novembre 2019

STORIA

Il custode fedele dei cimiteri ebraici

Da trent'anni Giuseppe Minera cura e salva dal degrado le tombe e la memoria delle comunità israelitiche di Pomponesco, Bozzolo, Sabbioneta, Ostiano e Viadana «Le lapidi che rimangono con la loro pesantezza sono un segno, una testimonianza incontrovertibile»

«Hai spazio nel baule per queste?». «Queste» sono due pesanti cesoie per la potatura delle siepi. Rivedono la luce nel parcheggio davanti a un grigio cancello, sormontato da una Stella di David. Siamo all’ingresso del cimitero ebraico di Viadana: un rettangolo di giardino stretto tra alte palazzine, quasi che gli inquilini delle seconde debbano interloquire dal balcone con gli antichi abitanti del primo.
L’erba è stata da poco tagliata e c’è un accento di sorpresa nella voce di Giuseppe quando stabilisce che «queste – cioè le due pesanti cesoie – oggi non servono». Non è andata così la prima volta che ha messo piede in questo luogo tormentato dalla storia, passando da una porticina laterale perché il cancello principale era stato rubato e l’entrata chiusa. «Il cimitero versava in uno stato di abbandono e disinteresse. È servita un’intera giornata per tagliare l’erba, quel tanto che bastava per riuscire a entrare. Altri tre giorni sono stati impiegati per sradicare l’edera infestante dai muri perimetrali e togliere quella che si era arrampicata sui due grandi pini marittimi. Poi ho iniziato a rialzare le lapidi, a ricomporle, lavarle, fotografarle e catalogarle».

Giuseppe Minera è il custode del silenzio, il guardiano cattolico dei cimiteri ebraici.
Artigiano di Pralboino (Brescia), 59 anni, da più di 30 salva dal degrado le ultime tracce delle comunità ebraiche vissute tra cremonese, bresciano e mantovano. Ha iniziato nel 1987 ripulendo il cimitero israelitico di Ostiano, poi ha applicato i suoi sforzi a quelli di Bozzolo, Sabbioneta, Pomponesco e Viadana. Nella città mantovana, al limitare della Diocesi di Cremona, è intervenuto una prima volta negli anni Novanta, ma il giardino è tornato giungla e nel 2012 si è richiesto un nuovo intervento, insieme a due famiglie della zona. «Il cimitero di via Paralupa risale ai primi dell’Ottocento, in seguito alla disposizione di Giuseppe II d’Asburgo di spostare i cimiteri fuori dai centri abitati. L’ultima sepoltura risale agli anni Cinquanta. È stato fatto di tutto per sopprimerlo, perché dava fastidio alla città in espansione. È stato abbandonato, dimenticato e profanato. Nel 1968 hanno rubato le catenelle in ottone intorno alle lapidi e vandalizzato a colpi di mazza le urne credendo che nascondessero tesori: c’erano solo ceneri».
La storia del piccolo giardino è lo specchio delle vicende della sua comunità. I primi insediamenti ebraici nel viadanese risalgono al Quattrocento. Poche famiglie hanno vissuto ai margini della società, nel ghetto dietro all’attuale piazza Manzoni, vittime di pregiudizi, persecuzioni e intolleranze. La follia del Novecento, con le leggi razziali e i campi di sterminio, ha fatto il resto, determinando la definitiva scomparsa di comunità già fortemente ridotte.

Il suo è un operoso ricostruire
quello che gli altri spezzano,
un alacre riordinare
quello che l’indifferenza confonde

Il lavoro di Giuseppe è un commovente ossimoro: riportare in vita i luoghi dei morti, strapparli all’indifferenza, come ultimi ricordi tangibili della loro esistenza. Lo fa con precisione enciclopedica, restaurando i cippi funerari e fotografandoli, traducendo le iscrizioni e ricostruendo la storia dei loro personaggi, per riannodare i lembi sfilacciati della memoria. Ma lo fa soprattutto con una passione amorevole che trascende l’interesse tassonomico.
Lo si capisce quando racconta soddisfatto di aver riunito a Viadana le sepolture del garibaldino Achille Cantoni, che combatté a Condino la Terza Guerra d’Indipendenza, e della moglie Maria, “uniti in vita e in morte” – come recita la tomba della vedova. O quando si ferma trasognante, con la kippah rispettosamente calata in testa, davanti ai bellissimi epitaffi, alcuni in ebraico altri in italiano. Sono poesie, detti rabbinici, salmi biblici, invocazioni:

“Passeggiero,
hai una lacrima?
Spremila pel padre,
pel fratello,
per la sorella
che questa memoria
pongono”.

Ogni lapide ha un volto, un significato e un albero genealogico, che Giuseppe conserva nella memoria prima ancora che tra gli archivi.
A Viadana ci si imbatte nelle vicende di un ufficiale ottocentesco, a Bozzolo negli avi del premio Nobel Emilio Segrè, a Ostiano nel sepolcro di Moisè Angelo Finzi, primo sindaco ebreo dopo l’Unità d’Italia. Anche la simbologia svela mondi: le clessidre alate indicano il tempo che passa, l’Uroboro (il serpente che si morde la coda) l’eterno ritorno; il mandorlo, che è la prima pianta a fiorire in Palestina, indica che il defunto era sempre il primo alle porte della sinagoga, le mani con il medio e l’anulare divaricati rappresentano l’atto di benedizione. «Sembra il saluto dei Vulcaniani in Star Trek», sorride Giuseppe.
Il custode dei cimiteri israelitici si muove sul crinale di un universo surreale costantemente minacciato dalle tenebre. Il suo è un operoso ricostruire quello che gli altri spezzano, un alacre riordinare quello che l’indifferenza confonde, una pietosa donazione di senso a pietre che rischiano l’insignificanza eterna.
Salvare rettangoli di memoria e adornarli con piantine di lillà è complicato, quasi quanto imparare l’ebraico e i suoi giochi di parole. «Da molto tempo sono appassionato e studioso di cultura ebraica», racconta Giuseppe. «A partire dagli anni Ottanta ho vissuto diversi mesi nel kibbutz di Ruhama, nel deserto del Negev. Ma posso dire di conoscere l’ebraico come un ragazzino delle medie conosce il francese».
Nella difficile lotta contro l’oblio, a volte gli capita di scuotere la testa, come quando trova sepolcri in frantumi per l’incuria («Sai, la gente si appoggia e li rompe inavvertitamente») o lapidi murate capovolte. Altre volte disvela orgoglioso il suo mondo nascosto, come quando citofona al condominio di via Bonomi 31, attende che la signora Maria – 98 anni e 90 gradini da scendere – apra la porta e ci conduce in una grandiosa sinagoga. «I lavori sono iniziati nell’Ottocento, ma il parroco si è arrabbiato perché era troppo vicina alla chiesa e, dai disegni, più alta. Così è rimasta incompiuta, poi è stata venduta a privati che ne hanno fatto deposito e falegnameria».
Giuseppe, perché fai tutto questo? «Ho un amico che allena i ragazzini di una squadra di calcio: fa molti sacrifici, ha responsabilità ma è felice. Ho un altro amico che recita come attore in teatri importanti: dedica la sua vita a quello, si impegna a fondo ed è contento. Per me vale lo stesso: è la mia passione. Non so a Viadana quanti pronipoti siano tornati sulle tombe dei loro defunti, a Ostiano molti parenti hanno ritrovato un luogo dove far visita ai loro cari. Per questo auspico che i cimiteri vengano lasciati aperti e non resi accessibili solo su prenotazione. Ma c’è dell’altro…» aggiunge, dopo aver recitato la preghiera ebraica, chiuso il pesante cancello del cimitero e riposto le cesoie nel baule. «Se vedi le cose, tutto acquista un senso. Se non le vedi, serve un atto di fantasia. Per questo si vogliono rimuovere le tracce, per poter raccontare quello che si vuole. Le lapidi che rimangono con la loro pesantezza sono un segno, una testimonianza incontrovertibile. Se vuoi un suggerimento, nel tuo articolo concentrati su come poche famiglie abbiano potuto vivere attaccate alla loro fede e alle loro tradizioni per centinaia di anni, subendo segregazioni e persecuzioni. Di questo popolo non rimangono che cimiteri e qualche luogo di preghiera».
Il guardiano del silenzio custodisce parole che urlano forte.