domani

N.07 Gennaio 2020

RUBRICA

… o quel domani non sarà

Domani sa etimologicamente di inizio, di nuovo. De mane: di mattina.

Come una bellissima mano che ti afferra se vuoi e ti dice che puoi ricominciare.
Mettere in pausa tutto quello che è successo ieri e rielaborare.
L’illusione concreta di lasciarsi indietro un po’ di peso, e mettere il piede giusto giù dal letto. La fregatura è che è proprio così; se il futuro prossimo non è certo un provvidenziale colpo di spugna su ciò che siamo stati, abbiamo fatto, ci hanno infierito, è ontologicamente la finestra sul possibile, e quindi anche sul nuovo.
E nel mondo del verosimile i cambiamenti avvengono granello dopo granello.
Impercettibilmente, giorno dopo giorno.
Mattina dopo mattina.

Lo faccio domani, ci penso domani.
Il domani come contenitore di tempo infinito, buco nero nel quale seppelliamo volontà, sogni, desideri, buoni propositi.
Un vuoto a rendere di coraggio.
Una cesta di lamentele di un presente stretto e spento che non ha la forza di mettere radici e di germogliare, domani, in qualcosa di più profumato.
Ci arrendiamo all’oggi che non ci piace e carichiamo il domani di “forse” e “magari”, senza prenderci la nostra parte di responsabilità di ciò che non va, di ciò che noi – e non il tempo – non siamo stati capaci di correggere, cambiare.
Ci raccontiamo la bugia che abbiamo tempo, domani.
Abbiamo sempre un giorno in più su cui fare affidamento per ridisegnare la mappa.

Lavoro di lima e passione mangiati a colazione per trasformare, briciola a briciola, un’idea in un progetto.
Tutti i santi giorni. A volte meglio, a volte peggio.
Il domani come proiezione di ciò che stiamo facendo qui e ora, senza che ci venga la voglia di consolarci con l’idea che i cambiamenti accadranno da soli, domani, non cambiando mai fondamentalmente nulla in ogni oggi che ingurgitiamo.
Il domani come cantiere sempre aperto, per rinforzare un giorno le fondamenta, un altro il tetto, di una casa sempre in ristrutturazione. Un impegno a fare subito, per smettere di lamentarsi nell’indolenza petrarchesca del non-agire.
Uno monito all’accidia, che non a caso in greco è senza cura. Lo svelamento di una verità scontata quanto ignorata: per quanto il fato ci muova, siamo sempre noi poi a scegliere.

Che a volte urliamo per una rivoluzione senza sapere come armarci, su quale fronte cominciare. E quando sembra tutto inesorabilmente fermo, senza via d’uscita; tutto, all’improvviso, cambia.
Un incrocio casuale di innumerevoli micro-avvenimenti, inciampi, scontri di odori e malumori che crea una scintilla di vita, percorsi che fino a un secondo prima non esistevano prendono prepotentemente il loro spazio.
Imprevisti che semplicemente non erano dati diventano alternative.
Errori che originano nuovi dubbi, ipotesi, strade.
Uno stravolgimento per cui l’inaspettato si innesta sul conosciuto, plasmandolo.
Domani come una fede cieca in ciò che ancora non si sa.

Se un disagio non lo percepiamo vuol dire che non esiste, non importa quanto mortale sia la minaccia. Beffardo come un diabete silenzioso, di cui però abbiamo diagnosi e referti.
L’orologio del nostro pianeta – l’unico che abbiamo – ha un ticchettio disperato, figlio del meccanismo schizofrenico che gli abbiamo montato.
Tutto intorno a noi manda segnali spaventosi su quanta poca sabbia resti nella clessidra per invertire il disastro che abbiamo azionato.
Ma non ci importa.
Perché ogni mattina ci alziamo, respiriamo, lavoriamo, viaggiamo, ridiamo, amiamo, piangiamo. È tutto come sempre, e la condanna sembra impossibile.
Gli oceani sono lontani, gli incendi un problema degli altri.
Ci possiamo sempre pensare domani.

Così il domani si fa investimento chiassoso sopra l’eco quotidiana di una lagna inutile.
Domani come speranza e obbligo morale di azione verso chi non ha fatto niente di male per non averlo più, un domani.
Domani che, per quanta hubris ci ubriaca, dovrebbe essere abolita come parola dal vocabolario degli umani.
Sostituita con un nunc imperante.
Lo faccio adesso, ci penso adesso, mi preoccupo adesso.
O quel domani non sarà.