domani

N.07 Gennaio 2020

ACCOGLIENZA

Legalmente adulti, dall’oggi al domani

Al centro diurno Giona vivono, studiano e sognano gli adolescenti arrivati in Italia dopo aver attraversato da soli confini, deserti e mari: sono minori non accompagnati finché non compiono 18 anni

Un calciobalilla schiocca colpi da maestro al centro del salone. Ai comandi quattro adolescenti in felpa sportiva si contendono la pallina in un match serrato. In comune hanno pochi tratti di presente, in attesa di un domani ancora da scrivere. Poco più in là un gruppo di coetanei attende l’inizio della lezione d’italiano. Tra le mani lo smartphone – appendice irrinunciabile – per loro è la porta su un mondo che hanno lasciato, ma con cui non perdono il contatto: la famiglia, gli affetti, casa.
Gli spazi del centro diurno Giona ricordano un doposcuola, ma in gioco c’è molto più di un diploma. L’attività è a carico della cooperativa cremonese Nazareth, che dal 2008 accoglie minori stranieri non accompagnati. Hanno tra 15 e 18 anni, giungono dall’Africa centrale, dal Nordafrica, da Kosovo e Albania , dal Medioriente. Più adulti dell’età anagrafica, si giocano in pochi mesi la possibilità di un futuro diverso, protagonisti di un’adolescenza messa a dura prova ma desiderosa di fare, di farcela. «Volevo diventare calciatore» racconta Cheikh, diciott’anni compiuti da un mese. Gli occhi nerissimi e vivaci tradiscono un’età che stride con l’esperienza vissuta. Due anni fa lascia il Senegal e in sei mesi attraversa da solo la Mauritania, il Marocco, poi Spagna, Francia e Italia, fino a raggiungere Casalbuttano. Avvisa la madre solo dopo aver superato lo stretto di Gibilterra. «Non ci credeva. “Hai rischiato la vita”, mi ha detto. Lo so. Ma cosa potevo fare?» replica con un mezzo sorriso stretto in un’alzata di spalle, quasi a voler scrollare i ricordi di un viaggio tutt’altro che semplice in cui l’incoscienza diventa audacia, arma e scudo allo stesso tempo. Dopo la prima accoglienza, approda alla cooperativa Nazareth, dove riprende gli studi e ottiene il diploma di terza media. Intraprende un corso professionale di meccanica senza abbandonare la passione per il calcio, giocato in una squadra cittadina di prima categoria

«“Hai rischiato la vita”, mi ha detto.
Lo so. Ma cosa potevo fare?»

.Con lui c’è Ergys, coetaneo giunto in città nel 2017. Dai monti albanesi raggiunge in pullman il nord Italia, per inventare tutto da capo. «Avevo quindici anni – racconta – ero convinto di arrivare e trovare facilmente un lavoro, inserirmi, aiutare la mia famiglia. Mi hanno incoraggiato a partire, loro sono rimasti là». Le frontiere non sono l’unico ostacolo: «All’inizio è stata dura, soprattutto per la lingua. Non potermi esprimere mi faceva sentire debole, così come non poter lavorare subito». Lo studio diventa la chiave per un futuro possibile: dopo il diploma di terza media potrà accedere alla formazione per adulti. Cucinare è la sua passione: «Mi è sempre piaciuta l’idea di lavorare nella ristorazione, magari diventare pizzaiolo». Abbozza un sorriso. «Vorrei fare qualcosa di buono per me, vorrei durasse per tutta la vita».
La teoria è spesso ben distante dalla realtà, che per i minori non accompagnati prevede tutt’altro iter: la questura, i documenti provvisori, l’accoglienza in comunità, la barriera linguistica, l’inserimento sociale. Un sistema complesso eppure protetto, almeno fino allo scoccare dei diciotto anni. Legalmente adulti, dall’oggi al domani.
«Cerchiamo di prepararli a questo passaggio nel più breve tempo possibile», spiega Carlo Bassignani, operatore e referente del progetto, che oggi conta dieci operatori e una quarantina di volontari. L’affluenza varia sull’onda dei flussi migratori, passando da qualche decina di ospiti nei primi anni di attività a otre 70 nel 2015, per attestarsi a circa 50 presenze nell’ultimo anno. «Alcuni rimangono con noi un paio d’anni e hanno la possibilità di svolgere un vero e proprio percorso, altri arrivano a pochi mesi dal compimento della maggiore età», racconta Carlo. Più che un traguardo, un punto di partenza. «Chi ha legami sul territorio o una buona formazione ha più opportunità: in parte è fortuna, ma più di tutto contano l’impegno e la forza di volontà».
Le cifre rassicurano: «Il 99 per cento di chi esce da qui trova un lavoro e riesce ad ottenere il primo rinnovo del permesso di soggiorno». Prospettiva possibile, ma non scontata: «Qualcuno ha già le idee chiare su ciò che vorrebbe fare, ma spesso il bisogno vince sul sogno. Rimanere significa ripiegare su alternative più sicure». Il permesso di soggiorno è un vincolo, così come i debiti contratti con le famiglie per poter partire, con la promessa di aiutare chi è rimasto a casa. «La maggior parte di loro si porta appresso responsabilità enormi, cui risponde come può». In questo lato del mondo hanno tra le mani una chance da giocare a tempo determinato, in un contesto completamente nuovo fatto di regole e responsabilità. L’esperienza si apprende sul campo, partendo dagli aspetti quotidiani: «I ragazzi vivono in alloggi autonomi, sotto la supervisione di un maggiorenne affidatario». In genere si tratta di ex minori non accompagnati, “esperti per esperienza”, cui sta il compito di far rispettare le regole della cooperativa e del vivere comune. «Hanno vissuto le stesse cose, per loro è più semplice trovare un punto di contatto con i nuovi arrivati e condurli verso l’indipendenza». L’attività è organizzata in turni e mansioni specifiche, condivise come le rispettive culture: «Festeggiamo il Natale, la Pasqua, il Ramadan…», elenca Cheickh.

«Vorrei fare qualcosa
di buono per me,
vorrei durasse
per tutta la vita»

«Oggi cucino io, martedì cucina egiziana, mercoledì tocca a lui» e indica l’amico, con cui condivide l’appartamento e il corso di formazione per diventare affidatari. «Responsabili degli altri, ma soprattutto di noi stessi» chiosa Ergys con guizzo di orgoglio, prima di raggiungere l’atrio per le pulizie dell’area comune. Il salone si riempie per la lezione di lingua. I cellulari si lasciano in una scatola, le “regole del campus 2020” sono ben scritte su un cartellone: parlare italiano, ascoltare, portare rispetto, conoscersi, dire ciò che si pensa, non giudicare, partecipare.
«Alla fine la fiducia ripaga. Nascono opportunità, legami. Chi rimane spesso desidera restituire ciò che ha ricevuto» sottolinea Carlo. «Cremona sa accogliere, una volta superato lo scoglio della fiducia. La sfida è portare loro là fuori e la città qui». Dove la carta serve per studiare e non per dimostrare di avere un valore. Dove l’accento non cade sulla nazionalità ma sulla lingua comune – l’italiano – e l’unica discriminante è l’impegno, mentre i desideri sono simili e sempre accesi: stare bene, aiutare la famiglia, diventare pizzaiolo o trovare una squadra in cui giocare a calcio, perché in fondo il sogno è sempre lì.
Se non oggi, domani.