radici

N.29 Marzo 2022

RUBRICA

Pasolini, il canto del Passato per ritrovare nel Presente il sacro

“Io sono una forza del passato” da “La Ricotta” di Pier Paolo Pasolini con Orson Welles (Youtube

C’è una poesia struggente, tratta da Poesia in forma di rosa, che Pierpaolo Pasolini fa pronunciare a Orson Welles all’interno de La ricotta. Il film costituisce il terzo capitolo di un film a episodi, RoGoPaG, diretto da un poker di autori di primo piano che, con le loro iniziali, formano l’acronimo del titolo: Rossellini, Godard, Pasolini e Ugo Gregoretti. Di fronte a un giornalista che lo ha raggiunto sul set e gli pone domande banali sul suo lavoro, l’austero regista replica:

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tusculana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

La poesia 10 giugno, pubblicata nel volume Mamma Roma, e poi in Poesia in forma di rosa, è chiosata dallo stesso Orson Welles il quale spiega che il poeta «ha descritto certi ruderi antichi di cui nessuno più capisce stile e storia e certe orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono». È un testo che condensa il senso del lavoro cinematografico pasoliniano del primo periodo, quello che muove costantemente il suo sguardo alla ricerca di una sacralità che gli è necessaria per vivere, e che trova negli anfratti di una tradizione con la quale confrontarsi. Così, ne La ricotta, si dispongono due linee narrative: il racconto di un regista-intellettuale e sofisticato, che ricostruisce maniacalmente nella forma di tableaux vivants alcune celebri pale d’altare, come La deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino, e Il trasporto di Cristo di Jacopo da Pontormo, e il racconto della quotidianità dei membri della troupe, in particolare di Stracci, un poveraccio che vive di stenti.

I colori fiammanti
di Rosso e di Pontormo
illuminano la grigia morte
di uno scarto della società

Il regista ha cura di non separare del tutto queste due direttrici del racconto: mentre Orson Welles declama i versi densi di Pasolini, risuona un twist che abbiamo visto ballare, poco prima, da due ragazzi. E, allo stesso modo, mentre il regista riproduce maniacalmente il quadro di Rosso e di Pontormo, i personaggi – catapultati da un’altra epoca e da tutt’altre occupazioni – compiono gesti o pronunciano parole ordinari, che desacralizzano il clima dei quadri rimessi in scena. Quasi un lavoro sistematico, suggerisce Tomaso Subini, di de-sacralizzazione di ciò che ha assunto nel tempo una dimensione mitica, e una ri-sacralizzazione di ciò che invece è stato espulso dalla Storia. Ed è l’occhio del regista-poeta, in forza della sua capacità visionaria, e dalla sua collocazione in un tempo fuori dalla storia, a cercare i segni di questo raddoppiamento, decostruendo e ricostruendo incessantemente ciò che appare ormai “naturale” alla visione dei più.

Dopo le inquadrature dedicate alla nuova messa in scena delle tele, vediamo Stracci che, dileggiato dai colleghi sul set, prende il cestino del pranzo destinato alle comparse e ai membri della troupe e lo dà ai suoi famigliari, giunti nei pressi del luogo in cui si gira la scena, attirati dal miraggio di poter consumare un vero e proprio pranzo.

Le inquadrature della famiglia che mangia, lente e dalla bilanciatissima composizione, vanno a costituire quasi un altro tableau che ha una “sacralità” altrettanto grande rispetto alle raffinate composizioni figurative.

Il colore per l’arte classica, e il bianco e nero per la rappresentazione della vita ordinaria sembrano sottolineare il diverso statuto dei due mondi, solo apparentemente così distanti.
E infatti il luogo in cui essi si ricompongono è quello della parte conclusiva del mediometraggio: dopo aver mangiato così tanto da star male, Stracci gira la scena della crocefissione interpretando il ruolo del ladrone buono.

Sul set sono accorsi in molti per omaggiare il regista-intellettuale: la stampa, il produttore, e “quelli che contano”. Stracci, invitato da un assistente, ripete la battuta «Quando sarai nel regno dei cieli, ricordami al Padre tuo», una variazione popolaresca delle parole tramandate dal Vangelo.

In verità si tratta di un’esclamazione che perde subito i suoi connotati finzionali per assumere quelli di una invocazione, opportunamente reiterata, prima di esalare l’ultimo respiro. Il paradosso di Pasolini è quello di non fare morire Cristo in croce, ma di tenere gli occhi puntati sull’invisibile Stracci, che viene meno al cospetto e nell’indifferenza di tutti. I colori fiammanti di Rosso e di Pontormo illuminano la grigia morte di uno scarto della società.

«Povero Stracci, è morto. Non aveva altro modo per ricordarsi che anche lui era vivo», commenta ancora il regista. La morte per Pasolini è la questione più intrinsecamente legata al sacro, perché opera in chi vi assiste una rilettura degli eventi e della storia in una cornice “altra”, connessa a un bisogno mai sedato di darvi un senso che trascenda dai miseri resti. Di fronte alla morte (finalmente) si scoprono le radici che tengono abbarbicato l’umano. È qui che si palesa il canto della forza del Passato, una forza che rivitalizza la lezione della storia ormai appannata dalla tradizione, riportandola a una condizione originaria, e insieme costringe a leggere anche nei segni più laici (e oscuri) del presente gli indizi di una insospettata sacralità.