aria

N.39 Marzo 2023

INCONTRI

Tra i muri dell’ora d’aria ti sorprende la libertà

Matteo parla dei suoi 15 mesi di carcere con un tono che spiazza: «Stavo perdendo la partita. È stato come buttare tutte le pedine, resettare per ricominciare». Annalisa segue da educatrice i percorsi di reinserimento in società e in carcere ha provato per pochi minuti lo spazio dell'ora d'aria: «Mi è mancata l’aria, ho avuto paura e mi sono sentita sola»

Stavo svolgendo dei colloqui in carcere – ci racconta Annalisa Greci, agente di rete e operatrice servizi al lavoro – quando è iniziato “del cinema” e l’agente, per mettermi in sicurezza, mi ha comunicato che avrebbe dovuto chiudermi in uno stanzino. Desideravo fumare e ho chiesto di poter andare in cortile. In modo sbrigativo sono stata accompagnata nel luogo dove si svolge l’ora d’aria.
Mi ricordo bene il rumore delle mandate della porta blindata che si chiudeva alle mie spalle. Mentre cercavo sigaretta e accendino, osservavo le mura altissime che delimitano il cortile, uno spazio di non più di quindici metri quadrati con lo scolo per l’acqua piovana al centro. Ho avuto la brillante idea di sedermi sull’unico oggetto presente: una piccola panchina. Stando accucciata su quello che era solo un piccolo rialzo, mi sono resa conto che il mio sguardo, istintivamente, si rivolgeva verso l’alto, in direzione del cielo perché, all’altezza degli occhi, vedevo solo il grigio cemento.
Ho fumato rapidamente, poi sono subito andata alla porta e ho sbattuto forte le mani sul metallo per attirare l’attenzione dell’assistente e farmi aprire». Un profondo respiro le riempie il petto e interrompe il racconto. «Mi ricordo bene quel momento perché mi è mancata l’aria, ho avuto paura e mi sono sentita sola».
Matteo P. sorride, allarga le braccia e afferma di essere «fra i pochi che hanno un ricordo positivo del carcere. Anzi, i 15 mesi che vi ho trascorso da recluso sono stati tra i più belli della mia vita».

Davanti allo stupore per una risposta del genere, si sente in dovere di chiarire: «Quando ho fatto quello che ho fatto – il reato rimarrà per tutta l’intervista ammantato di mistero – ero conscio dei rischi che stavo correndo. Nel 2018 il mio avvocato mi ha detto che, prima o poi, sarebbero venuti a prendermi. Da quel momento ho vissuto costantemente con l’ansia delle 6 del mattino. Ecco, esattamente a quell’ora sentivo mancarmi l’aria. Non so bene da dove derivasse la mia convinzione, ma ero sicuro che sarebbero arrivati a quell’ora».
Così, quando un giorno gli agenti hanno bussato alla sua porta, per Matteo è stata una “liberazione”. Da dietro un paio di occhiali che gli conferiscono un’aria da intellettuale, prosegue: «Io amo gli scacchi, sono come la vita. In quel momento della mia esistenza stavo perdendo la partita. Essere portato in carcere è stato come buttare tutte le pedine, poter resettare tutto e aver poi la possibilità di ricominciare».
L’ ex rampante imprenditore spiega la sua tranquillità nell’andare dietro le sbarre con il fatto di non dover abbandonare relazioni significative «a parte la mia famiglia, con cui comunque ho mantenuto i rapporti». Con un’imperturbabile serenità prosegue: «Ho utilizzato i 15 mesi di detenzione per dedicarmi del tempo, soprattutto per riflettere, un lusso che non potevo permettermi nella frenetica vita precedente. Il carcere non è sicuramente un posto riabilitativo, ma, a me personalmente, ha fatto bene».

Annalisa, forte della sua esperienza di operatrice, precisa: «Non sono così stupita dalle riflessioni di Matteo. Per qualcuno il carcere è un contenimento che obbliga a fare i conti con se stessi. Il vissuto dipende dalle risorse della persona, dal suo livello di consapevolezza, dal senso di responsabilità nei confronti dell’agìto».
Ci rivolgiamo nuovamente a Matteo per capire se, davvero, non ci sono stati momenti di scoraggiamento. «Io mi immaginavo il carcere come nei film, pensavo di indossare una tuta arancione e finire in un luogo dove regnava la violenza. Invece ho incontrato un ambiente diverso e mi sono trovato bene sia con gli agenti che con i compagni di detenzione». Poi, per chiarire la docilità con cui è entrato, aggiunge: «Quando ho varcato le porte della Casa circondariale avevo la certezza di rimanere poco: il mio avvocato mi aveva garantito che entro due settimane mi avrebbe tirato fuori».
Ridono insieme, Matteo e Annalisa, evidentemente è una convinzione con cui entrano in molti. Poi l’operatrice aggiunge che l’atteggiamento con cui si accede al carcere è fondamentale: «Se hai la consapevolezza del reato, allora non sei arrabbiato con il mondo intero ma solo con te stesso; le difficoltà si creano quando, oltre a non aver questa coscienza, ci sono problemi di farmacofilia, tossicodipendenza o altre forme di disagio. Sono tutti elementi che rendono le persone fragili e innescano comportamenti oppositivi, aggressivi e spesso autolesionistici. Forse per Matteo ci sono state altre difficoltà, per esempio dovute al suo precedente alto standard di vita».
«In realtà non è stato così difficile – riprende Matteo – perché provengo da una famiglia di umili origini: fino a 21 anni sono andato in vacanza solo una volta e, vi posso assicurare, la camera di quell’albergo era più brutta della cella. Anche il cibo non è stato un problema perché, fin da bambino, era impensabile alzarsi da tavola lasciando qualcosa nel piatto. Le polpette del carcere non sono il massimo, ma in fondo nemmeno così male. E durante il Covid, quando nessuno poteva uscire di casa, noi potevamo stare all’aperto e giocare a calcetto. Chi era davvero libero e chi no?» conclude con ironia Matteo.

Matteo, durante la detenzione, ha chiuso un’osservazione trattamentale positiva che gli ha permesso di ottenere la possibilità di lavorare all’esterno, in un percorso di inclusione sociale, che è la finalità del progetto Restart. Finanziato da Regione Lombardia, ha come finalità quella sostenere l’attuazione di interventi di accompagnamento socio-lavorativo di soggetti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria. Il capofila del Progetto è il Comune di Cremona che coordina un ricco partenariato di enti del privato sociale in sinergia con la Casa Circondariale e L’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) di Mantova.
«Sono stato accolto da don Roberto Musa e coinvolto nella fondazione della cooperativa “Fratelli tutti”– prosegue Matteo nel racconto – “adesso sono libero, ma l’esperienza fatta mi ha cambiato: prima ragionavo sempre al singolare, oggi lo faccio al plurale! Ho scelto anche di proseguire a collaborare con UEPE come peer supporter per essere di aiuto alle persone ancora in carcere».
Chiudendo un incontro ricchissimo di contenuti e suggestioni, Matteo ci saluta con una battuta: «Sai, per me, cos’è oggi l’aria? L’elemento fondamentale per far lievitare grissini, focacce e pizze. Il mio sogno è rientrare in carcere per insegnare ai detenuti il lavoro del fornaio».