cibo

N.15 Novembre 2020

DISTURBI ALIMENTARI

An-óreksis: mancanza, privazione di appetito

I pensieri più intimi di chi ha conosciuto il buio dell'anoressia, ha lotatto contro il cibo mentre il nemico colpiva più a fondo nell'anima Finché si è aperta una finestra d'amore

foto di Jairo Alzate on unsplash
“Ha ancora senso
battersi contro un demone,
quando la dittatura
è dentro di te?”

Afterhours, "Padania"

La voce di Manuel Agnelli sprigiona da un vecchio compact disc. Ha più graffi che anni, un po’come certi periodi della vita, che sembrano più scuri solo perché segnati a fondo. Somigliano a un buco, rimarcato dall’assenza di fotografie, in cui in ogni caso non sapresti riconoscerti. Lo ricordano alcuni indumenti, troppo stretti, sepolti in un angolo dell’armadio. Come vita dismessa, come pelle di serpente. Crisalidi di tela, testimonianze di un battito d’ali delicato e furente al contempo.

An-óreksis, dal greco. Mancanza, privazione di appetito. Il cibo è protagonista incidentale, sintomo suo malgrado di qualcosa ben più profondo. Rifiutare ciò che invita alla vita, le relazioni, l’affetto. Il nutrimento, sotto la forma più ovvia.
La “forza” è dire no, saper fare a meno.


R-esistere.


Affermarsi tramite una sottrazione costante, che acquista peso man mano che il corpo ne perde. D’altronde “l’uomo è ciò che mangia”, diceva Feuerbach. Il disagio interiore alimenta l’ipotesi di essere nulla, diventare invisibile. Negarsi fino a non esistere più. E quel pensiero sottile come un’ombra si fa spazio tra le costole e si annida lì, dove sta l’anima.

C’è chi lo chiama “male di miele”, per aggiungere dolcezza là dove manca.
Il controllo è tutto: si posa sul corpo, l’unica parte di te che non può fuggire.
Conti le calorie, le vertebre, le ore che separano dal prossimo “no”. Ogni alimento è tradotto in valori nutrizionali, quindi nel calcolo esatto di come ridurli a zero. È un lavoro di fino, per limare ogni imperfezione vera o presunta. Alla ricerca del limite, di un traguardo inafferrabile.
L’appuntamento con la bilancia è una costante mentre gli incontri con lo specchio sono rari, fuggitivi, per il timore di non vedersi più. Crudele e sincera, la superficie di vetro riflette ben oltre ciò che trova, oltre ciò che appare. Una figura difforme, de-forme. Spezzata come una cannuccia in un bicchiere d’acqua.
Evitare il riflesso dello sguardo altrui è meno semplice: pupille mute come le domande tracciano il profilo dei lineamenti affilati, dei maglioni troppo larghi, dei polsi sottili.


Non ti vedi?
Chiedono.
Non mi sento,
Vorresti rispondere.


Invece ripeti che tutto va bene.
D’altronde la mente, mente. È evidente. E con lei la bocca, disco rotto che inventa verità posticce per rispondere a domande scomode o per serrarsi in una protesta silenziosa, immotivata solo in apparenza.


“Lotti, tradisci,
uccidi per ciò che meriti,
fino a che non ricordi più
che cos’è”.

Le note degli Afterhours continuano a riempire l’abitacolo dell’automobile, immersa nella foschia autunnale. Un mare di latte avvolge la grande pianura e ne cancella i confini, risucchiando chiunque si avventuri oltre il limite. Strane assonanze con una vita precedente, incidentale. Come la nebbia, nessuno sa mai dire quando o da dove inizia. Ti ci trovi e basta, al punto di non riconoscere la strada di casa. Come un inverno imprevisto, che congela le dita e anestetizza il cuore.
Succede quando tutto sembra sfuggire tra le mani, cui non rimane altro che afferrarsi a vicenda. Tese in un abbraccio lasso, lungo quanto il tempo necessario alla consapevolezza. Un vuoto pneumatico, che scoppia come una bolla di sapone nel momento in cui per azzardo incroci il riflesso del tuo volto, che non riconosci più. Una foto scattata a tradimento, un profumo dimenticato, un contatto inaspettato con chi, là fuori, ti aspetta ancora.
È l’amore che salva. Quello per se stessi, per gli altri, per la vita che torna a bussare, caparbia e impetuosa. Ogni emozione che affiora nutre l’anima di nuova linfa, fino a dipanare il torpore.

Dallo stomaco alle guance,
come il risveglio di Biancaneve.


Sul fondo rimane una consapevolezza fragile, anticorpo di qualcosa che è stato, per fare in modo che non accada più.

Come la nebbia si posa , permea a fondo nella terra che l’ha generata e trasforma la fame d’aria in fame di vita.