ridere

N.44 Novembre 2023

digitale

Breve storia del fotoritratto, dalla Gioconda all’emoji

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Quando fu messo a punto da Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale prese il nome, grazie a una geniale intuizione di Joseph Nicéphore Niépce e di suo figlio Isidore, il dagherrotipo si inserì inevitabilmente nel solco della pittura dell’epoca e da essa prese spunto per parecchi anni, ben oltre il suo progressivo perfezionamento nella moderna fotografia.
Era il 1840 e quello storico passaggio non soltanto vide emergere una nuova forma d’arte, ma iniziò a cambiare profondamente la pittura e le arti figurative in generale, che si liberarono dalla necessità – o forse soltanto dalle aspettative dei loro fruitori – di riprodurre fedelmente la realtà, virando verso nuovi orizzonti che sino ad allora erano stati ben poco esplorati.
All’epoca, ma già da moltissimo tempo se non addirittura da sempre, chi voleva farsi ritrarre lo faceva in modo solenne, austero. Avere una riproduzione di se stessi era qualcosa di troppo prezioso e raro, almeno per la gente comune, per sprecare quell’opportunità sorridendo davanti al pittore o al dagherrotipista.
Ecco perché molte delle prime fotografie rappresentano persone impostate, impettite, orgogliose di farsi immortalare in un ritratto e che ne doveva mostrare la serietà, l’affidabilità ed eventualmente il prestigio.

Del resto chi proviene dal secolo scorso, anche in decenni non remoti, ricorda bene come la serietà fosse considerata per chiunque un requisito importante e caratterizzante. Una persona seria era considerata credibile, affidabile, degna di rispetto, capace di stare in società e di dare il proprio contributo. Non che ridere fosse considerato qualcosa di negativo, ma tutto ciò che aveva a che fare con il divertimento era relegato in un’apposita categoria e in un preciso tempo, che era quello dello svago.
Niente di strano, se analizziamo l’etimologia del termine divertimento: esso deriva dal latino divertĕre, ovvero volgere altrove, allontanarsi, scostarsi per un po’ da una vita fatta di impegno e di serietà.

Una persona seria era considerata
credibile, affidabile, degna di rispetto,
capace di stare in società
e di dare il proprio contributo

Anche nell’arte classica il sorriso non è lo standard per la ritrattistica.
Ad eccezione del caso emblematico della Monna Lisa Leonardiana, il cui sorriso appena accennato tende ad ipnotizzare lo spettatore, pochissimi altri ritratti del passato vedono i loro protagonisti sorridere, ammesso che la Gioconda lo faccia davvero. Molte sono le interpretazioni al riguardo, ma probabilmente la più verosimile e sempre valida, al di là della cultura delle diverse epoche, è che il sorriso cattura lo sguardo e ruba la scena, che è anche il motivo per cui ridere è sempre stato considerato frivolo, se non addirittura una mera manifestazione di vanità.

L’invito da parte del fotografo di turno a stare “fermo così” e a sorridere è dunque un’attitudine moderna, che negli ultimi decenni è stata celebrata da fenomeni pop come quello dello Smile (o Smiley). La sua genesi è attribuita ad Harvey Ball, che disegnò la faccina che sorride nel 1963 per una compagnia di assicurazioni americana. Furono però in molti a reclamarne la paternità e i diritti, fino alla sua registrazione come marchio nel 1971 da parte di un imprenditore francese d’origine algerina, la cui azienda detiene i diritti della faccia sorridente e del nome Smiley in molti paesi del mondo.

Sia come sia, sorridere è oggi un vero e proprio status, che si pretende possa distinguere le persone realizzate e vincenti da quelle che vivono perennemente imbronciate. Di più: incrociare una persona sorridente è oggi considerato rassicurante, oltre che piacevole. Sorridere non è più considerato una frivolezza o un eccesso di confidenza, ma un atto di cortesia e di accoglienza, alla stregua del tradizionale inchino che è tipico della cultura di molti paesi asiatici.

L’austerità e la serietà hanno progressivamente lasciato il posto ad approcci più informali e questo è abbondantemente testimoniato anche dall’arte fotografica, in cui sorridere davanti alla fotocamera è divenuto nel tempo un codice.
Sorridere non è più un tabù e questo va oltre la mera dimensione estetica. Se per un certo periodo mostrare i denti era ritenuto volgare e inadeguato, infatti, ciò si doveva non soltanto alla necessità di darsi un contegno, ma soprattutto all’elevato numero di persone con la dentatura rovinata dagli eccessi alimentari o alcolici, dalle guerre e dai combattimenti molto più frequenti e dalle scarse o inefficaci cure che hanno caratterizzato la storia della medicina fino al secolo scorso.

Sorridere non è più considerato
una frivolezza o un eccesso di confidenza,
ma un atto di cortesia e di accoglienza

Smarcato il problema estetico, tuttavia, resta e prende corpo quello etico: ridere è davvero sintomo di frivolezza? La gran quantità di riferimenti al sorriso che in questa nostra epoca caratterizzano il cinema, la canzone e tutte le arti e le manifestazioni umane sembrerebbero escludere questa ipotesi, ma il mistero della Gioconda di Leonardo è quanto mai attuale, perché la reazione al fatidico “sorridi!” del fotografo, nella maggior parte dei casi, consta in un mix di disagio e di inadeguatezza che spesso trasforma i sorrisi in ghigni sforzati o, peggio, in pieghe del volto che rivelano molta più ansia che serenità.
Sebbene la capacità di sorridere ci caratterizzi sin dalla prima infanzia e sia del tutto naturale, con gli anni impariamo a conoscere questa nostra caratteristica e ad utilizzarla a nostro vantaggio, rendendola parte di un bagaglio espressivo che ne inevitabilmente finisce per minarne l’autenticità.

Quello che il sensore delle macchine fotografiche e degli smartphone cattura dopo il click è dunque un sorriso sincero e genuino, oppure soltanto un accessorio che indossiamo sul volto e che tende a comunicare qualcosa che non è? Questo è il dilemma.

In ciascuno di noi c’è una Monna Lisa che sarà scrutata da molti meno occhi di quelli che consumano il celebre dipinto di Leonardo, ma il mistero del nostro sorriso è esattamente lo stesso e non riguarda chi sfoglia le foto che ci ritraggono, ma noi stessi e il modo in cui vorremmo che gli altri ci guardassero.
Questo è oggi ancora più evidente sui social media, dove sotto strati di generosi filtri cerchiamo di nascondere quelle che riteniamo essere le nostre imperfezioni, salvo poi renderci conto che non c’è poi così tanta differenza tra la versione definitiva dei nostri esperimenti di ritocco e le sintografie generate dall’intelligenza artificiale, che rappresentano in modo verosimile persone inesistenti.
È forse proprio questo il mistero che si nasconde dietro troppi sorrisi fotografati: così come non erano affatto spontanei i dagherrotipi dell’ottocento, in cui le persone ritratte si davano un contegno e una posa, allo stesso modo rischiano sempre più di non esserlo nemmeno i normalissimi selfie che ci scattiamo ogni giorno, nei quali dobbiamo necessariamente mostrare agli altri quanto siamo felici e realizzati.

Non c’è poi così tanta differenza
tra la versione definitiva dei nostri esperimenti di ritocco
e le sintografie generate dall’intelligenza artificiale,
che rappresentano in modo verosimile
persone inesistenti.

Uno stato che riguarda più i desideri che la realtà. Basta guardare decine di foto di influencer più o meno famose sui social per accorgersene: per quanto quelle giovani ragazze possano apparire belle, quando non addirittura perfette, le differenze tra di loro sono sempre meno evidenti, perché i filtri dei social media omologano, appiattiscono, rispecchiano canoni talmente limitati da convogliare milioni di persone verso un unico modello, che presto finirà per perdere qualsiasi particolarità.

Ciò che sfogliamo sui social sono centinaia di migliaia di sorrisi perfetti che mostrano denti perfetti dietro labbra altrettanto perfette, sebbene un po’ gonfie e colorate in modo vivace e luminoso. Stessi sguardi, tra il provocante e l’evanescente, stesse pose, stesse acconciature, ma soprattutto lo stesso inconfessabile intento: dimostrare di avercela fatta, di essere vincente, di essere migliori delle altre persone, sebbene la stragrande maggior parte di esse comunichino la stessa cosa nello stesso modo.
Miliardi di Gioconde e di Giocondi perse in un gioco di specchi sospeso tra la vanità e la vacuità, con l’unico tabù di mostrare i lati meno accattivanti della realtà fino al punto di autoconvincersi che non esistano o che debbano necessariamente essere debellati.