carta

N.31 Maggio 2022

RUBRICA

«Ciao, mi piaci…». E il cinema prende carta e penna

Attimi in cui tra settima arte e scrittura si genera una corrispondenza profonda, in cui il messaggio si concerta e rimane, spalancando le porte d'accesso al cuore dei personaggi e al passaggio dei sentimenti che li rendono indimenticabili

C. De Muro, D. Mardegan e N. Dal Corso, “Tu mi Piaci – se lo scrivi dura” (Youtube)

Che cinema e letteratura siano nemici, è solo un pregiudizio superficiale, frutto di cattive riduzioni di romanzi per lo schermo o di una visione manichea dei due mezzi espressivi. In realtà pellicola e carta hanno molto in comune, a partire da quella particolare forma di scrittura per il cinema che è la sceneggiatura, fino alle numerose modalità di incontro tra la parola scritta e il racconto per immagini. Lo ha mostrato molto bene François Truffaut, attraversando quasi tutte le fasi del percorso creativo dell’una (la letteratura) e dell’altro (il cinema). Come non pensare, ad esempio, alle diverse forme di scrittura (e di lettura) presenti in grande quantità nei film del regista francese, sotto forma di citazioni, celebrazioni, omaggi, scambi di corrispondenza, diari…?
Nella moltitudine di itinerari possibili per attraversare questo ampissimo territorio, vorrei soffermarmi sulla corrispondenza che viene rappresentata nei film. A ben pensarci, i racconti cinematografici sono ricchissimi di momenti in cui uno dei personaggi scrive, invia o legge una lettera. Innumerevoli anche i titoli che vi fanno riferimento, appartenenti a generi del tutto differenti: Lettera a tre mogli (di Joseph Mankiewicz, 1949), oppure Lettera a Franco (di Alejandro Amenábar, 2019), e ancora Lettera al mio assassino (di Janet Mayers, 1995), Lettera aperta a un giornale della sera (di Francesco Maselli, 1970) fino a Lettera da una sconosciuta, indimenticabile mélo di Max Ophuls interpretato da Joan Fontaine.
Perché si scrive così tanto, nei film? Innanzitutto perché la lettera è in se stessa un medium: un mezzo per, uno strumento di, qualcosa che mette in contatto un soggetto emittente (autore) con un destinatario (ricevente). Così la presenza di una missiva, all’interno di un mezzo audiovisivo, rinvia implicitamente alla trasmissione del messaggio contenuto nel film stesso, come sottolinea Truffaut in Baci rubati (1968) facendo assistere lo spettatore al viaggio della corrispondenza.

La lettera è veicolo di desideri o di rimpianti,
apre a tutte le possibilità
suggerite dal cuore e dall’immaginazione

In secondo luogo, la lettera è un agente narrativo efficace: ponte di comunicazione tra ambienti e personaggi distanti nel tempo e nello spazio, consente di operare sinteticamente nel tessuto del racconto. Lunghi episodi – magari difficili da realizzare, o superflui nell’economia visiva del film – vengono affidati alla pagina scritta e alla voce che li racconta rapidamente. Allo stesso modo le lettere contengono spiegazioni che agevolano per il pubblico la comprensione di vicende intricate, o l’espressione di psicologie e sentimenti di personaggi che sullo schermo, dove non esistono didascalie, non potrebbero essere rappresentati se non attraverso il discorso diretto oppure per mezzo di azioni.
Ancora, la lettera è l’espressione più sincera della personalità di chi la scrive. Per questo nei film è visualizzata nella maggior parte dei casi attraverso la calligrafia dell’autore, e ascoltata dal destinatario attraverso la voce di chi l’ha composta. La scrittura, e allo stesso modo la voce, sono i due parametri più genuini dell’unicità dell’essere umano, i più certi e inconfondibili. Anche oggi, quando abbiamo ormai perso l’abitudine a scrivere biglietti e missive, la lettera vergata a mano ci mette in contatto in modo più diretto, quasi intimo, con l’autenticità dell’autore.
Nello stesso tempo, la lettera è veicolo di desideri o di rimpianti, e quindi apre a tutte le possibilità suggerite dal cuore e dall’immaginazione: specchio dell’anima, ospita le confessioni più riposte, gli spazi profondi e dilatati del sentimento. Come nel caso di Theodore, il solitario protagonista di Her (Spike Jonze, 2013) che, per un curioso paradosso, per professione detta al computer lettere inventate, commissionate da clienti vari, mentre sfoga in una missiva tardiva alla ex moglie tutto il suo dolore per non essere riuscito a mantenere una comunicazione aperta e profonda con lei.

Anche chi non ha avuto modo di sviluppare un alfabeto emotivo, per temperamento o scarsità di mezzi, può sempre ricorrere alla corrispondenza per dilatare i propri pensieri, andando anche in cerca di qualche aiuto per trovare le parole giuste. Così accade al rude buttafuori Tony Lip Vallelonga, bravo a chiacchiere ma meno davanti a un foglio di carta: è il raffinato pianista afroamericano Don Shirley che lo aiuta a compitare lettere affettuose per la moglie Dolores la quale le riceve con ammirata commozione in Green Book (di Peter Farrelly, 2018).

La lettera, infine, rimane nel tempo. Si deposita tra i ricordi cari e più vivi, anche per la possibilità di essere letta e riletta a debita distanza temporale; è un ponte tra passato e futuro, garanzia di sentimenti che hanno carattere di permanenza. «Se lo scrivi, dura» è il claim di un cortometraggio realizzato da tre universitari milanesi, Clemente De Muro, Davide Mardegan e Niccolò Dal Corso, divenuti poi affermati registi pubblicitari (v. video a inizio pagina) .Qui, in novanta secondi si concentra non solo la storia di una cotta infantile che pone le premesse per una vita intera, ma anche l’interno spettro delle forme e dei significati del motivo epistolare sullo schermo. Una vera e propria lettera d’amore… per il cinema.