frontiere

N.12 Giugno 2020

RACCONTO

Il villaggio di Luce

Un racconto inedito di Marco Ghizzoni racconta di isole e oceano, di distanze dal mondo ma soprattutto delle frontiere dell'amore che disegna i nostri orizzonti

foto Taylor Simpson on Unsplash

L’irrompere della luce sorprese le mangrovie nel movimento ondeggiante di un inchino appena accennato. Tirava un leggero vento da est, parole sussurrate lontano risuonavano incomprensibili nelle orecchie della ragazza seduta in riva all’oceano. Cielo e acqua si toccavano laggiù, gli azzurri di densità diverse attraversati dalla sottile linea dell’orizzonte oltre la quale lei sembrava scrutare. Cosa sperava di vedere? Il suo sguardo appariva sereno, la grazia dell’attesa increspata da un movimento appena percettibile oltre l’ansa della baia in cui la corrente accelerava di poco il suo moto perpetuo.

Ogni volta lo stesso brivido.

Luce nacque prematura, cinque anni dopo di lei. Quando Aria la vide la prima volta era così piccola che temeva di consumarla con lo sguardo, il corpicino secco e livido ricordava un piccolo ragnetto rachitico. Per lei era stato amore a prima vista, del resto era la sua sorellina, l’aveva aspettata a lungo e coccolata già nella pancia della mamma, tuttavia i suoi genitori apparivano tristi e turbati, come se qualcosa non andasse. Aveva dieci anni quando iniziò a chiedere spiegazioni, era abbastanza grande per farsi alcune domande ma, evidentemente, non lo era per la verità: loro rispondevano che erano solo stanchi, che andava tutto bene. Ma sapeva che mentivano.

Temevano forse che il suo amore potesse svanire? Che tutto sarebbe cambiato?

Lo avevano fatto per proteggerla, per non farla preoccupare, perché la sua vita era altrettanto importante di quella di Luce e non sarebbe stato giusto metterla in secondo piano; questo le avevano detto quando non era stato più possibile nascondere la realtà, quando era ormai evidente che Luce non era come le altre, come lei, e mai lo sarebbe stata.

L’amore, a quel punto, si era fatto se possibile più intenso, e il legame tra loro speciale. Non c’era giorno in cui lei, dopo la scuola, non corresse a casa dalla sorellina, incurante degli inviti delle amiche e delle lunghe serate estive sulla spiaggia, a cui non era mai mancata prima. Non le interessavano più quelle cose, ormai erano solo una perdita di tempo, non riusciva a immaginare di essere altrove senza Luce e quelle manine con cui la sfiorava di messaggi d’amore. L’unico svago era il nuoto e il senso di libertà che le dava, ogni bracciata l’avvicinava all’infinito verso cui tendeva il blu cobalto che attraversava senza avvertire stanchezza, la salsedine a dare sapore alle labbra scottate dal sole. Sognava di portarci Luce, un giorno, ne immaginava lo sguardo pieno dei delfini che, a volte, la affiancavano e si divertivano a nuotare insieme a lei, a spruzzarle l’acqua negli occhi che bruciavano di felicità. Non aveva paura degli squali, si sentiva più forte di loro, era parte di quell’immensità sulla linea dell’equatore.

A Luce piaceva sentire l’odore dell’oceano sulla pelle di sua sorella, così Aria – quando tornava dalle sue lunghe nuotate – passava sempre da lei a farsi annusare prima di togliersi la salsedine sotto la doccia con movimenti lenti e prolungati. Quel nasino minuscolo le faceva il solletico e, ridendo come una matta, le prometteva che presto l’avrebbe portata sulla spiaggia per sentirlo dal vivo, quell’odore, sprigionarsi intenso dal fragore delle onde.

«È ancora troppo presto, tesoro» le rispondevano i suoi genitori ogni volta che chiedeva loro il permesso di accompagnarla laggiù.

«Perché?» chiedeva lei, abbattuta.

«Perché è ancora piccola», le spiegavano loro, con gli occhi pieni di lacrime e una verità dolorosa tenuta dentro a forza.

Ma il tempo passava, Luce cresceva, e quel momento non arrivava mai.

Arrivò il tempo della scuola, a cui Luce non venne iscritta. Le sue condizioni di salute si erano rivelate ben più gravi di quanto i medici avessero inizialmente diagnosticato, e la psicologa aveva consigliato ai genitori di tenerla a casa, non avrebbe retto la presenza di decine di bambini sani – questo aveva detto – non prima di aver elaborato appieno la sua situazione. Per il momento, aveva bisogno di sua sorella, l’unica in grado di comprendere quel modo delicato e ermetico di comunicare, piccoli tocchi leggeri in punta di dita e sfioramenti lievi, come se l’epidermide di Aria fosse istoriata di un Braille che solo loro due riuscivano a interpretare.

Nata sorda, cieca e con una paralisi cerebrale, Luce aveva bisogno di Aria per vivere; sua sorella era la sua voce, le sue lacrime, il suo sorriso.

A Luce piaceva
sentire l’odore dell’oceano
sulla pelle di sua sorella

Al tramonto il villaggio è più vivo che mai. Sono le ore più fresche, quando il cielo si tinge di colori tra il giorno e la notte e la risacca risplende del baluginio del sole che se ne va. È il momento del giorno che Aria predilige per tuffarsi in acqua e nuotare, i pochi rimasti galleggiano a riva o si rilassano sulla battigia e non le sono d’impaccio mentre si allontana dalla baia con ritmo cadenzato e rinnovato vigore nelle membra. Potrebbe arrivare fino al continente, ne è certa, un giorno di questi ci proverà, e se non avrà abbastanza energie per tornare indietro, chiederà un passaggio alle sgangherate barche dei pescatori che tornano a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Non oggi, però, pensa, ha promesso a Luce che non avrebbe fatto tardi e che avrebbe parlato con quel signore che due giorni prima l’aveva avvicinata sulla spiaggia per farle i complimenti. La osservava da una settimana, le aveva detto, ed era sorpreso di come una ragazzina di tredici anni potesse nuotare con quella velocità e quella resistenza, e le aveva prospettato un grande futuro. Voleva parlare con i suoi genitori e le aveva chiesto l’indirizzo di casa.

«La casa rossa alla fine della spiaggia» aveva risposto, perché nel suo villaggio non esistono indirizzi.

Ha deciso di arrivare fino all’isolotto dell’inchino di mogano, così chiamato a causa dell’albero di mogano piegato da venti millenari, così da essere di ritorno per l’ora di cena. È giusto che aspetti, quell’uomo, ma non troppo, la nonna glielo ha insegnato quando era piccola: mai rendersi immediatamente disponibili per uomini che non siano della famiglia, un po’ di attesa non può che aiutarli a riflettere.

Ad ogni bracciata sente le voci sulla spiaggia affievolirsi, sa che quando tornerà non ci sarà più nessuno, la sua famiglia è l’ultima a cenare nel villaggio, un’abitudine che risale nel tempo, oltre la memoria. Le correnti sono più ostinate del solito, è come se litigassero tra loro per accompagnarla o ostacolarla, tuttavia l’intero suo corpo sembra non risentirne; le bracciate non perdono elasticità, le gambe si alternano in una danza acquatica ancestrale, un passo a due con Nettuno, i polmoni sembrano generare l’ossigeno anziché immagazzinarlo. Le ci vuole poco prima di scorgere le fronde dell’albero di mogano esibirsi nel famoso inchino, ha come l’impressione che voglia tributargli un omaggio per la rinnovata impresa. È ora di tornare.

Il sole è ormai liquefatto sulla linea dell’orizzonte e ha preso a colare nell’oceano, Aria ci nuota dentro increspando l’acqua che si agita in piccole onde color del sangue. Un’enorme tartaruga l’affianca per un tratto, sorpresa da quel corpo sconosciuto che fila silenzioso in superficie e in totale solitudine. La scruta e sembra quasi riconoscerla, prima di immergersi di nuovo e riprendere le sue occupazioni di sopravvivenza.

Il villaggio la accoglie buio e quieto, il profumo dell’oceano si spinge fino alle abitazioni, si insinua all’interno attraverso le porte e le finestre spalancate sugli altri, un invito per chiunque a entrare, a condividere lo sciabordio delle onde che è la costante colonna sonora di quelle serate immerse nella pace.

Chissà cosa vorrà quell’uomo, si sorprende a pensare una volta fuori dall’acqua. Soffia una brezza leggera che la fa rabbrividire, Aria lascia che le sfiori la pelle per asciugarla, le offre il suo corpo intirizzito, l’umidore della nuotata appena conclusa, il sudore dell’oceano. Come previsto, è già lì quando varca la soglia di casa, seduto intorno al tavolo insieme ai suoi genitori e a Luce. Lo ignora e affretta il passo verso sua sorella, la stringe forte e si lascia annusare, nulla potrebbe farle dimenticare il loro rituale. Si dicono qualcosa attraversi i soliti piccoli tocchi dei polpastrelli, Aria sorride probabilmente a una battuta della sorellina, la rassicura con la sua presenza, le spruzza qualche fredda gocciolina dai capelli.

«Tesoro» la chiama sua mamma.

Aria si accomoda accanto a Luce tenendola per mano, e resta in silenzio.

L’uomo si schiarisce la voce e attacca a parlare, è in lieve imbarazzo e il completo troppo pesante lo fa sudare sulla fronte e nello spazio tra naso e labbro superiore rasato di fresco. Le spalle ampie e la postura sostenuta fanno pensare a un ex atleta, il doppio mento stretto nel colletto inamidato della camicia, invece,

a un uomo che si è arreso al passare degli anni. Insiste su grandi progetti a medio e lungo termine e butta lì cifre che impressionano i genitori di Aria mentre a lei non dicono niente.

«Dove mi allenerei?» lo interrompe per arrivare al dunque.

«Tampa, Florida» risponde l’uomo con un certo orgoglio.

«Perché?»

«Be’, lì c’è un comprensorio all’avanguardia dove potresti migliorare le tue prestazioni in preparazione alle Olimpiadi. Perché è lì che vogliamo arrivare, giusto?»

Aria non smette di dare strizzatine di mano a Luce, le sta traducendo le parole dell’uomo nel loro linguaggio segreto.

«E cosa farei lì, nuoterei?»

L’uomo guarda spaesato i genitori della ragazza prima di rispondere: «Certo. Cos’altro dovresti fare?»

«E allora posso farlo benissimo anche qui. È quello che faccio ogni giorno»

«Aria, non essere scortese col signore, ti sta offrendo una grande opportunità»

Lo sa bene, e deve averlo capito anche Luce, che con una stretta di mano più decisa del solito sembra esortarla ad accettare. Papà e mamma, invece, non si espongono, non vogliono condizionare le scelte di Aria, sta a lei decidere del proprio futuro e lì, in quella piccola isola in mezzo all’oceano, non può essere un granché. Ha sempre sognato di nuotare per vivere e di vivere nuotando, sfidare le atlete più forti per dimostrare di esserlo ancora di più, e ora è a un passo da realizzare quel sogno, ma c’è qualcosa che la blocca, e loro sanno di cosa si tratta.

«Vedi, Aria» riprende il signore «a Tampa abbiamo tutta la strumentazione per monitorare le tue prestazioni, diverse piscine che riproducono ogni condizione possa verificarsi nell’oceano, un dietologo e allenatori a tua disposizione. E poi conosceresti un mucchio di altre ragazze della tua età e…»

Lascia cadere una pausa eloquente che tutti capiscono al volo.

«Non mi interessa conoscere nessuno, ho già i miei amici qui e tutto quello che mi serve»

L’uomo comincia a perdere la pazienza, ma non vuole darlo a vedere. Scruta il volto dei due genitori in cerca di aiuto, ha bisogno che facciano ragionare la figlia, da solo non ce la può fare. Tuttavia, è evidente che non troverà collaborazione, è come se avesse davanti un muro di gomma, il suo sguardo gli rimbalza indietro senza colpo ferire. Eppure non sta offrendo loro pochi soldi.

Potrebbe arrivare
fino al continente, ne è certa,
un giorno di questi
ci proverà

«Potrai tornare a casa ogni mese, più o meno, e sentire la tua famiglia tutti i giorni» azzarda.

È questione di un attimo, la mamma di Aria e Luce lo percepisce in anticipo, ma non può intervenire in tempo. Aria lascia la mano della sorella e si scaglia contro l’uomo che le sta seduto di fronte:

«Come pensa che riuscirò a sentire mia sorella, che è cieca e sorda, eh? Forse a Tampa conoscono un modo per toccare le persone attraverso il computer? Non credo proprio».

«Tesoro, calmati»

La mamma la abbraccia, mentre il papà afferra la mano di Luce e cerca di tranquillizzarla. Si sono sempre chiesti se lei si sentisse un peso per Aria, e il solo pensare a quella parola li fa sentire in colpa, ma è un pensiero che non riescono a formulare con altre parole. Né riescono a decidere se sarebbe meglio o no, se sperare che la figlia più piccola abbia consapevolezza di sé e di ciò che la circonda o augurarsi che tutto sia per lei incoscienza e assenza di dolore.

«Io… io non immaginavo…» balbetta l’uomo.

È giunta la fine di quel colloquio, il papà lo accompagna gentilmente fuori.

«Ci scusi, ma la situazione è molto delicata, più di quanto si possa immaginare»

L’uomo annuisce, soffia fuori un po’ d’aria alla nicotina e decide di non arrendersi. Non ancora.

«Vostra figlia è un talento raro e potrebbe entrare nella storia. Non devo dirglielo io, ma la fama porta soldi e i soldi risolvono molti problemi nella vita»

Il ragionamento, pur se di una becera meschinità, non fa una piega; e loro hanno bisogno di soldi, le cure di Luce costano un capitale, così come gli spostamenti sul continente per gli esami mensili. Tuttavia non è a quello che sta pensando il papà di Aria e Luce: sono andati avanti con le proprie forze fino a quel momento e avrebbero potuto continuare così, un modo lo avrebbero trovato, come sempre: quello che non si perdonerebbe mai, invece, sarebbero i rimpianti e i rimorsi di Aria, e il non avere insistito affinché decidesse del suo futuro senza pensare alle conseguenze della sua scelta sulla sorellina. Non è una sua responsabilità, non può né deve condizionarle la vita in quel modo.

I due si salutano con la promessa di sentirsi presto, quando rientra in casa, di Luce non vi è traccia.

È tutto così faticoso, così difficile. Uno sforzo continuo. Solo nuotare le riesce naturale, alternare una bracciata all’altra e lasciarsi trasportare dal respiro del mare, eppure anche quello le sta diventando pesante, quasi impossibile. Si è dovuta fermare tre volte prima di arrivare all’isola dell’inchino di mogano, le è mancato il fiato e le forze erano sempre sul punto di mancarle. Ora sta cercando di recuperare le energie all’ombra dell’albero, fa caldo e non ha la minima idea di cosa scegliere.

Il nuoto è la sua vita, ma la sua vita non può prescindere da Luce, dal contatto con lei, dai loro silenzi di mille parole. Sa bene quanto costino le cure, ha sentito più volte i suoi genitori discuterne preoccupati, e sa altrettanto bene che dare retta a quell’uomo può offrire loro una piccola possibilità di farcela, di smetterla di pensare ai soldi. Chi è lei per permettersi questi capricci e privare la sua famiglia della speranza?

Lo deve fare. Per loro, se non per se stessa.

Il ritorno lo fa con la leggerezza di sempre, solcando l’oceano come un galeone sospinto dai venti di maestrale e grecale. Al villaggio sanno già tutto, hanno notato l’uomo sconosciuto aggirarsi tra le case la sera prima, conoscono il motivo per cui è stato lì. La accolgono con sorrisi nuovi, carichi di coraggio, e ne accompagnano l’incedere rapido con sguardi di comprensione. È la cosa giusta da fare, ne è sempre più convinta, tuttavia deve parlare con Luce, è suo il parere più importante.

A casa la sanno aspettando, se tarda non si preoccupano, sanno che l’oceano non le farebbe mai del male, che lei fa parte di quel blu sconfinato. Sono già a tavola, nell’aria una strana sensazione di attesa, di non detto che vorrebbe essere raccontato. Come sempre, Aria raggiunge Luce e la stringe forte; i capelli bagnati si appiccicano alle sue spalle scheletriche e asimmetriche, al suo volto immobile. Le due ragazze iniziano uno dei loro lunghi discorsi silenziosi, la stanza si riempie presto dell’odore della salsedine e del sole.

Luce ascolta paziente la sorella, ma sa già tutto, e ha già deciso.

L’autore

Marco Ghizzoni è nato a Cremona, dove vive, nel 1983. Ha pubblicato romanzi con Guanda e con Tea, questa è la sua prima raccolta di racconti. Quando non scrive, lavora nel settore commerciale di una multinazionale tedesca.