caos

N.47 febbraio 2024

reportage

In Terra Santa una speranza sopravvive: «Perché desiderare di essere altrove?»

Viaggio tra i cristiani che vivono in Israele, Cisgiordania e Gaza, dove una fede tenace tiene acceso anche in un luogo di morte e di paura, «il punto di luce da cui tutto il mondo può ripartire»

L’Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è forse uno dei più invidiati al mondo: punto d’incontro di culture, crocevia per viaggiatori provenienti da ogni dove, è da sempre un’icona di efficienza e sicurezza nel cuore del Medio Oriente. Si trova vicino al vivace centro di Tel Aviv e accoglie milioni di passeggeri ogni anno con la sua architettura moderna e le strutture all’avanguardia.

Dal 7 ottobre scorso, però, la sua immagine è stata stravolta. Al caos gioioso delle comitive di pellegrini o di ebrei ortodossi è subentrato un silenzio irreale. Perché il caos vero, là fuori – quello dei terroristi di Hamas che in poche ore hanno sequestrato e ucciso oltre 1400 civili israeliani – ha cambiato le cose per sempre. La reazione di Israele è stata immediata e spietata e così da cinque mesi la Striscia di Gaza – dalla quale provengono i miliziani di Hamas – è bombardata senza tregua. In questa guerra assurda sono ormai oltre ventiquattromila le vittime, quasi tutte civili palestinesi.

Sono arrivata a Tel Aviv i primi giorni di gennaio, con una pioggia battente a rendere ancora più grigio e cupo questo reportage nel cuore di quella che per molti è ancora Terra Santa. Al gate le immagini degli oltre 130 civili ancora ostaggio dei fondamentalisti islamici campeggiano ovunque, con la scritta “Bring them home now”, riportateli a casa ora. Scorrono i volti di anziani, neonati, giovani studentesse delle cui sorti non è dato sapere nulla. Il loro sequestro e il rifiuto di Hamas di liberarli è il nodo attorno al quale si muove tutto: il controverso governo israeliano guidato da Bibi Netanyahu ha promesso che non ci sarà pace finché l’ultimo dei terroristi non sarà ucciso. Poco importa che i leader di Hamas siano fuggiti in Qatar da tempo e siano intoccabili.

E qui, a cavallo tra Israele e Palestina,
tutto si gioca così: su una retorica
che elimina la possibilità di dialogo
o convivenza pacifica con l’altro

È la retorica che conta. E qui, a cavallo tra Israele e Palestina, tutto si gioca così: su una retorica che elimina la possibilità di dialogo o convivenza pacifica con l’altro.

A Gerusalemme, anche sui muri della parte araba, viene proiettata appena cala il buio la bandiera israeliana con la stella di David e i civili, tutti riservisti, girano con i mitra per strada. A Betlemme, in Cisgiordania, una scritta sul municipio ricorda che poiché la Palestina ha dato Gesù al mondo, il mondo deve dare la libertà alla Palestina (sottinteso: libertà dall’occupazione israeliana). E mentre a Gaza piovono razzi e bombe da centocinquanta giorni, il livello dello scontro è totale anche sui media.

C’è però qualcuno che, ogni giorno e senza far rumore, introduce una logica diversa: la logica del perdono. Sono i cristiani che vivono in Israele, Cisgiordania e Gaza. Nessuna retorica, solo vita vissuta. Li abbiamo incontrati, li abbiamo ascoltati.

Nella città dove Maria diede alla luce Gesù, oggi una donna per partorire in ospedale deve pagare l’equivalente di due stipendi. «Da quando è scoppiata la guerra, qui oltre il muro la vita è impossibile: non si trovano medicine, l’ANP fatica a pagare i salari ai dipendenti palestinesi, Tel Aviv ha revocato i permessi a chi ogni giorno attraversava i checkpoint dalla Cisgiordania verso Israele per lavorare e la totale assenza di pellegrini ha fatto morire tutte le nostre attività che vivono prevalentemente di turismo religioso: si tratta del 95% degli introiti per luoghi come Betlemme», ci racconta il sindaco della città Anton Salman. «Appena riapriranno i confini manderemo i nostri figli in Europa, a studiare, qui non c’è futuro», mi racconta una giovane mamma di un villaggio cisgiordano. Spiega che il marito ha perso il lavoro, in casa vivono con i figli e i genitori di lei, gravemente malati. «Non abbiamo i soldi per pagare la retta delle scuole né per le medicine dei miei. L’altra notte ci sono stati degli spari nella via e abbiamo paura».

Di cosa, chiedo. «Che quello che sta accadendo a Gaza arrivi anche qui», mi risponde il figlio adolescente. Dice che alla povertà ci si abitua, ma dalla morte non si torna indietro. Per questo vorrebbe poter lasciare la Palestina e trovare fortuna all’estero.

Molti vorrebbero scappare, tutti pregano Dio di cambiare le cose. Qualcuno però rimane. Come Saman, 67 anni, che non ha mai potuto vedere il Santo Sepolcro perché «è al di là del muro», che non può uscire di casa perché è paralizzata alle gambe ed è rimasta sola da molti anni. «Quando è morta mia madre non ho trovato chi si prendesse cura di me. Però non ho pregato di morire, ho pregato di vivere perché la vita è una cosa bella e io vivo dove Gesù è nato. Sono privilegiata». Mentre parla guardo la sua povera casa, le sue scarpe rotte, gli scialli vecchi che, uno sull’altro, sono l’unico riparo che ha contro l’inverno. Cosa la rende così positiva nei confronti della realtà?

Una risposta, forse, mi viene da una delle ultime tappe del mio viaggio, quando incontro le suore del Verbo Incarnato che a Betlemme curano l’Hogar Nino Dios, un’opera che accoglie oggi 36 bambini palestinesi gravemente disabili. Si tratta di minori abbandonati, rifiutati da una società che ancora oggi ritiene la disabilità una colpa e una vergogna per la famiglia. Nonostante le difficoltà date dalla guerra, la casa d’accoglienza è luminosa e pulita. I bambini, sulle loro carrozzine, sono tutti lavati, curati. Amati. «Non sappiamo quanto ognuno di loro rimarrà qui, l’aspettativa di vita è bassa. Ma sono come figli, preziosi».

«Abbiamo il compito di custodire
la loro purezza, la loro semplicità,
perché è il punto di luce
da cui tutto il mondo può ripartire»

Suor Maria non ha dubbi, non se ne andranno e non lasceranno questi ragazzi soli. Le domandiamo come si possa stare di fronte a tanto dolore, per di più con un conflitto che aggiunge sofferenza a sofferenza. La risposta vale tutta la fatica del viaggio. «Non so perché questi bambini debbano soffrire così, il dolore innocente rimane un mistero e una domanda che ho aperta con Dio. Però so che con il solo fatto di esserci, affermano un punto di luce e di bene per il mondo. Vedi, non possono far altro che lasciarsi amare. E guarda come sono felici, perché amati. Ecco io credo che noi abbiamo il compito di custodire la loro purezza, la loro semplicità, perché è il punto di luce da cui tutto il mondo può ripartire. Anche in questa guerra, dove sembra che nessuna vita umana conti, noi qui affermiamo che invece ogni uomo è unico e insostituibile. I nostri bambini ci insegnano questo, me lo ricordano ogni giorno. Perché dovrei desiderare di essere altrove?».