terra

N.01 Maggio 2019

LIBRI

L’uomo che piantava gli alberi

Per tutta la vita Bouffier alleva pecore e pianta alberi in un luogo desolato Con le sue querce torna l'uomo e nell'uomo torna la speranza

foto Ugo on Unsplash

Scritta nel 1953 da Jean Giono, autore francese schivo e amante della sua Provenza, la storia di Elzéard Bouffier ci offre i contorni netti della speranza. Di una ricostruzione impensabile dove l’uomo si è disgregato. Ritiratosi a vita solitaria sui monti della regione transalpina, Bouffier alleva pecore e pianta semi di alberi in una landa ampia e desolata – pratica, quest’ultima, che lo impegnerà per la vita intera. Un giovane viandante lo incontra in un tardo pomeriggio assolato, ricevendone acqua e ospitalità il tempo sufficiente a scoprire la lenta e silenziosa semina di quel pastore e rimanerne stupito. Diecimila le querce cresciute fino a quel momento e, se “Dio gli avesse prestato vita”, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre “che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare”. E così è.

Jean Giono, “L’uomo che piantava gli alberi” (1953) ed. Salani – 2017

Ma l’aspetto sorprendente e imprevisto della nascita di rigogliosi boschi dove prima era il nulla o poco più che villaggi decaduti, è il ritorno alla vita dell’uomo e, nell’uomo, della speranza. “Nel 1913 Vergons era una frazione di una dozzina di case, contava 3 abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole (…). Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. (…) Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana (…). In generale, Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza”.

Giono usa l’immagine del solitario e imperturbabile Bouffier per rimetterci di fronte al valore generativo di una vita spesa nella costruzione – o ricostruzione – di un luogo per tutti. Con generosa ostinazione, e nella messa alla prova delle delusioni. Mi sono chiesto, arrivando commosso in fondo alle pagine di questo volumetto, che cosa avesse mai sostenuto la forza di Bouffier in quella sua pratica appartata fin quasi alla soglia dei novant’anni. Credo – ma ognuno lo verifichi per sé – che lo spettacolo stesso generato da quel servizio fosse per lui un guadagno irrinunciabile.

“Vergons portava i segni
di un lavoro
per la cui impresa
era necessaria la speranza”