carta

N.31 Maggio 2022

RUBRICA

Non è la carta… che canta

Quando Beethoven ha scritto la Quinta era davvero "Allegro con brio"? Come trattano le "intenzioni" del compositore le avanguardie musicali? E perché la musica contemporanea nasce senza pentagramma

Pablo Picasso, 1910, Ragazza con mandolino (Fanny Tellier), olio su tela, Museum of Modern Art New York / en.wikipedia.org

Scripta manent, verba volant è il notissimo detto che decreta inflessibilmente cosa registra la realtà e cosa è destinato a scomparire poco alla volta fra le pieghe della memoria. Se si fa un discorso da notaio, non c’è dubbio che a qualcosa ci si deve ancorare nel dirimere questioni pratiche. Ma se ci mettiamo dal punto di vista dell’arte e sostituiamo “scripta” con “notae scritptae” e “verba” con “musicae” forse le cose non sono esattamente così. Citiamo qualche fatto: com’è possibile che la partitura, ovvero quel pezzo di carta, magari vergata di pugno dall’autore stesso, dia origine a numerose interpretazioni, a volte diversissime l’una dall’altra? Chi non sa che la famosa Bourrée dalla Suite in mi minore per liuto di Bach suona in un modo con lo strumento originale, mentre suona completamente diversa nella storica rivisitazione dei Jethro Tull nell’LP Stand up del 1969?

Oppure si provi ad accostare l’inizio del Preludio della Cello suite n. 1 di Bach seriosamente suonato da Yo Yo Ma al violoncello e quel semplice intermezzo strumentale che si è guadagnato una valanga di applausi che è Horizons di Steve Hackett dei Genesis e si veda la differenza.

In questi casi siamo in presenza di un “originale”, ossia di un supporto alla memoria rappresentato dal foglio di carta vergato in un preciso momento della storia musicale. Restando nel campo della musica classica ci si potrebbe chiedere come mai la Quinta di Beethoven con quell’imperioso, celebre inizio, probabilmente il più conosciuto al mondo (anche uno dei più difficili dal punto di vista tecnico per i direttori d’orchestra), conosca una enorme varietà di modi di attaccare: Karajan lo fa muscolare, Bernstein più lento, teatrale Muti, Barenboim drammatico, Harding distaccato e si potrebbe continuare anche se abbiamo solo quattro note di tema.

Ma càpita anche che lo stesso riferimento allo scritto redatto dal compositore risulti problematico per l’artista esecutore. Chi è un po’ addentro alla musica contemporanea forse ha sentito parlare di definizioni ultracomplesse come strutturalismo, postwebernismo, dodecafonia, e così via. Beh, la complessità è tale che un interprete ne può dare versioni diverse e perfino irriconoscibili rispetto alla partitura stessa. Ma forse qui siamo di fronte a una crisi di identità, anzi ne siamo certi, forse in questi casi l’uomo-artista scompare del tutto e l’estetica è quella negativa dell’uomo che non comunica più, per il quale la carta registra un punto di domanda enorme simile ai famosi quadri di Magritte con ritratti di persone con il viso sostituito da oggetti o come le figure picassiane deformate dai diversi punti di vista coesistenti sulla tela. E c’è stata un’altra corrente musicale recente, detta aleatoria, che pretendeva che una partitura venisse eseguita per esempio disponendo le pagine a caso, gettando i dadi prima per scegliere le note, lanciando per aria una moneta per decidere tempi, sequenze, agogiche e via dicendo… Anche qui si può parlare di musica che non corrisponde alla carta, in un estraniamento simile a quello di un Jackson Pollock che gettava i colori a caso sulla tela: il gesto era tutto, il risultato era, appunto, un caso.

Un interprete
può dare versioni diverse
e perfino irriconoscibili
rispetto alla partitura

Il fatto è che queste distonie si creano quando l’interprete è diverso dall’autore, ossia quando qualcuno deve compulsare fra le note non solo per eseguirle correttamente ma per intuire cosa vuol dire il compositore. Però qualcuno dovrebbe anche accorgersi che l’intenzione originale non è mai raggiungibile. Questo ce lo insegna la psicologia (c’è una parte di noi che neppure conosciamo, il famoso o famigerato Inconscio, figuriamoci se possiamo sintonizzarsi sull’interiorità di un’altra persona) e ce lo ripete lo spiritualismo (il tempo della coscienza non può cancellare il passato ma ogni momento del vivere nostro e del mondo risulta nuovo e inedito).
Tradotto in musica semplicemente vuol dire che una musica non sarà mai uguale a sé stessa, specialmente quando la carta è una fotografia di un qualcosa che è altro da noi. Chi può dire cosa c’è dietro quell’Allegro con brio indicato da Beethoven all’inizio della Quinta, che nessuno ha ascoltato di persona e nessun resoconto storico può precisare? Neppure il manoscritto originale, che ci si può mettere sotto agli occhi alla Deutsche Staatsbibliothek di Berlino, può aiutarci.
In fin dei conti potrebbe darsi che il classico Uno nessuno e centomila di Pirandello possa voler dire che un artista, come ogni persona, è un prisma di cui ognuno ha una visione differente rispetto ad altri e davanti alla sua opera nessuno può arrogarsi l’esclusiva di arrivare alle intenzioni originali.
Dunque, quando è la carta a fare da ponte fra autore e interprete, si può essere certi che i due si troveranno come su due rette parallele destinante a non incontrarsi mai. La controprova? Se si guarda alla musica di consumo di oggi si assiste a un curioso fenomeno: ai musicisti delle nostre canzoni non importa pressoché nulla di riportare su carta musica o arrangiamenti o melodie. Quelle rare partiture che si trovano in circolazione sono pubblicate a posteriori, in modo del tutto sintetico e incurantemente approssimativo.
Al musicista che ha contatto diretto con il pubblico, che comunica autenticamente la propria anima in musica, che sia pop, rock, jazz, folk, etnico, ecc., interessa suscitare emozioni. Quelle che si vivono, non quelle che si leggono.