carta

N.31 Maggio 2022

RADICI

La mappa del territorio su una… carta dei vini

L'eredità di Carlo Bertolini, che studiò il territorio cremonesi seguendo la corsa dei filari lungo i secoli, e le uve che ancora oggi crescono tra conventi e lotti di famiglia

Se ho sviluppato una forte curiosità verso la natura, lo devo soprattutto a Carlo Bertolini. A cavallo degli anni Novanta, le suore Dorotee, ci portavano, da scolari delle scuole elementari, a Bovegno, residenza estiva e casa di preghiere sulle valli bresciane, dove tra le tante attività, Carlo (enologo, agronomo e per anni direttore tecnico centrale del Gruppo Branca di Milano) ci impartiva semplici, ma significative, nozioni di botanica per iniziare a riconoscere erbe e fiori. Lo incontrai anni dopo, intento a concludere un immenso lavoro di ricerca sul territorio cremonese e la sua tradizione agricola di coltivazione della vite e produzione di vino. Iniziò nel 1974 un percorso interrotto sulla linea del traguardo. Il Covid si è portato via una delle menti più brillanti che ho avuto occasione di incontrare.
Mi ha spiegato come fino al 1800 i tre quarti del territorio cremonese fossero vitati. Non si è mai parlato di cantine sociali, ma di vinificazione per e all’interno delle aziende agricole, di vini rossi e bianchi che sostavano a lungo sulle bucce prendendo un colore arancione tendente all’ambrato. Nel volume che ha dato forma alla sua appassionata ricerca, “Cremona ed il suo vino”, Carlo ha racchiuso anche dati di catasto. La parte di territorio maggiormente vocata è sempre stata il casalasco. Oggi, per esempio, a Spineda, la famiglia Caleffi ha recuperato vecchi vigneti di lambrusco e malvasia, inventandosi una De.Co per dare identità ad un vino prodotto interamente in un territorio dove non esistono le doc.

La vigna della famiglia Caleffi a Spineda

All’epoca di Carlo V, siamo attorno all’anno 1500, a Corte Dosso de’ Frati il catasto indicava una superficie agricola di 6567 iugeri, di cui 5037 coltivati a vite. A Cella Dati la vigna occupava 1737 iugeri, mentre il resto dei campi 1567. Ogni villaggio, ogni cascina aveva la propria vigna. Il convento dei Frati Minori Cappuccini di via Brescia 48, nel cuore di Cremona, ospita uno degli ultimi esemplari di vigneti urbani. Fino all’inizio degli anni 2000, il frutto di queste piante così antiche ma ancora rigogliose, veniva lavorato nelle cantine del convento stesso. Oggi di vino se ne producono un centinaio di litri e viene vinificato in una cantina del piacentino.
Questo vigneto piantato nella seconda metà dell’ottocento viene lavorato anche grazie all’aiuto degli studenti dell’istituto di agraria, che possono sperimentare l’arte della potatura e della coltivazione di questa pianta tanto resistente.

È stato Carlo a spiegarmi che furono gli etruschi, dalla Sicilia, ad importare dei cloni di vitis vinifera sativa, successivamente ibridati con la vite selvatica. Virgilio, poeta latino, nativo di Mantova, in una sua bucolica cita la “vitis labrusca”. L’indovino Mopso si rivolge al pastore Menalca con queste parole: “Aspice, ut antrum silvestris raris sparsit labrusca racemis”. Inizialmente esistevano labrusca rossa, il padre del Groppello Ruperti, il padre di tutti i lambruschi, labrusca bianca. Altre uve bianche, come moscatella, zibibbo, uva marina e lugliatica, venivano importate.
Viaggiando attraverso la meraviglia della pianura Padana, mi sono reso conto, una volta di più, di come la campagna riesca a salvaguardare le tradizioni meglio della città. Accanto ai campi coltivati a mais e cereali, resistono ancora filari di uva utilizzati per consumo famigliare. Ve ne sono nelle campagne che abbracciano Piadena, Ca’ d’Andrea, Motta Baluffi.
La carta geografica, la fisionomia, del paesaggio cremonese cambia attorno all’anno 1830. In quel periodo storico, furono commissionati i primi studi approfonditi sulle concimazioni. Il guano importato dal Sud America rendeva più ricco il terreno. Furono gli austriaci ad introdurre prima il mais poi la pratica dell’allevamento bovino per la produzione da latte. Progressivamente le vigne vengono espiantate. Il territorio si trasforma, con esso le pratiche agricole, le comunità. La vite però ha lasciato testimonianze in (quasi) tutti gli angoli della nostra provincia.
Nel cortile interno di Cascina Lago Scuro, a Stagno Lombardo, ad esempio, una vite di uva bianca si arrampica fino al primo piano dell’imponente porticato, mentre a Persico una famiglia ha appena messo a dimora un ettaro di uva rossa, principalmente barbera, mischiata ad altre varietà.

Cascina Lago Scuro a Stagno Lombardo
Vigne a Persico

Nell’Antico Testamento il vino era considerato il simbolo di tutti i doni provenienti da Dio: era la bevanda della vita che sa donare consolazione e gioia e curare la sofferenza dell’uomo. È anche espressione di una comunità (agricola, ma non solo) e veicolo di socialità.
Nel 1976 Carlo Bertolini fece un corso di microbiologia a San Michele dell’Adige. Dai suoi studi e da dati di analisi, capì che gli uvaggi utilizzati per produrre il mosto dello champagne fossero sovrapponibili a quelli del lambrusco. Convinse Lando Lini, produttore di Correggio, a realizzare un esperimento, primo nella zona reggiana, di spumantizzazione, con metodo champenoise, in bianco, di Lambrusco. La prima volta lo assaggiò con Lini, con Cesare Zavattini, sceneggiatore di Desica, e uno dei fratelli Veroni, storico produttore di mortadella, detto “Manubrio” per via dei suoi baffi all’insù: «Per me – mi disse – fu come ripetere la Prima Comunione…».