dono

N.26 Dicembre 2021

LA DENUNCIA

«Non può essere un dono il lavoro che sfrutta»

Dialogo con Marco Omizzolo giornalista che ha vissuto tra i braccianti sfruttati nei campi dalle agromafie: «Con il lockdown le condizioni sono peggiorate e il problema è una ferita che riguarda tutti»

Marco Omizzolo è stato ospite dell'edizione 2021 del Festival dei diritti "Risvegli". È intervenuto presso il Centro pastorale diocesano di Cremona in una serata dal titolo "L'impegno di Tempi moderni per la dignità dei lavoratori sfruttati"

Il lavoro oggi rischia di essere occasione di sfruttamento. Non un dono, ma una coercizione». Marco Omizzolo, sociologo, docente universitario e ricercatore per Eurispes ha vissuto per un certo periodo accanto ai braccianti indiani «sfruttati nella mia terra, a due chilometri da casa mia, nei pressi di Latina. Nei campi – racconta a margine dell’incontro tenuto a Cremona nell’ambito dell’edizione 2021 del Festival dei diritti dal titolo “Risvegli” – ho visto uomini e donne lavorare 14 ore al giorno per 50 centesimi, percosse e violenze. Ogni volta che lo racconto è una ferita che si riapre. Ciò che ho osservato e provato ha segnato la mia vita. Ha cambiato per sempre la mia dimensione di uomo, ha reso viva in me la convinzione di una violazione sistematica dei diritti umani. Non in un paese straniero, ma in casa mia».

La sua esperienza viene raccontata senza filtri nel libro Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana. Un viaggio condotto da infiltrato «in un sistema pervasivo e predatorio» che caccia uomini e donne, braccianti, obbligandoli a lavorare come schiavi, ad ammazzarsi (letteralmente) di fatica, a subire violenze. Per vivere, o forse sopravvivere. Il problema non è solo italiano, valica confini, raggiunge anche l’India, precisamente la regione del Punjab. «Solo in Italia, secondo una ricerca svolta per Eurispes, il caporalato frutta 24.5 miliardi di euro». Un bottino costruito sulla pelle di esseri umani: «Un’emorragia di dignità ed umanità. Quando il lavoro è tutto questo non può essere dono».

Al contrario, «quando è emancipazione, salario adeguato e garantito, sicurezza e partecipazione è dono, perché offre una prospettiva di vita. Quando un’occupazione assicura stabilità ed equilibrio e consente a tutti e a ciascuno di conoscersi e riconoscersi è dono». Il riconoscimento deve valere universalmente «per uomini e donne, per italiani e stranieri».

Il dono poi non è un regalo. Non è statico, è dinamico. Cresce, si alimenta. Vive. Con ciascuno di noi. «Il dono è qualcosa che resta: bisogna conservarlo. Il lavoro come dono conserva una situazione di benessere, non solo economica ma anche sociale e culturale. Quando così non è, siamo nella dimensione opposta: quella delle promesse fatte e non mantenute, delle illusioni, dell’umiliazione, dello schiavismo e dello sfruttamento. La dimensione del lavoro come dono oggi è un’utopia realizzabile». I dati ci dicono che riguarda solo alcuni, per questo «bisogna fare in modo che la parzialità divenga universalità. Che il benessere si diffonda, raggiunga tutti e tutte».
La speranza ed il desiderio di cambiare le cose, grazie all’associazione Tempi moderni, fanno a pugni con una realtà che non lascia spazio a dubbi: «Ciò che abbiamo registrato nei campi nel periodo del lockdown è qualcosa di inquietante». La filiera agricola non si è mai fermata, «ma il sistema delle ispezioni è stato sospeso. Ciò ha determinato un peggioramento delle condizioni di sicurezza, un aumento dello sfruttamento (pari al 20 per cento), un incremento dei turni notturni e una diminuzione delle denunce, generando così un insabbiamento del caporalato».
Il divario tra fragilità e ricchezza è aumentato, «ha comportato un vero e proprio isolamento delle fasce più deboli della popolazione». Si sono sentite escluse, senza interlocutori con cui confrontarsi. «Il fatto che le istituzioni parlassero solo in italiano e solo agli italiani ha favorito l’allontanamento dei lavoratori più fragili dall’emancipazione, dal lavoro rispettato e valorizzato». Dal lavoro, come diritto.
«Il problema persiste e non riguarda i singoli».

«Bisogna solo avere
il coraggio e la forza
di piantare i propri occhi
negli occhi degli altri»

La mancata denuncia non dipende dalla paura di un bracciante: «Lo sfruttamento è sistemico, organizzato, diffuso. Non concerne solo l’economia, ma anche il servizio sociale e la cultura». L’attenzione di Omizzolo è puntata sui campi, «ma questo male si estende ad altri settori». In agricoltura affligge 450 mila persone all’anno. «L’insabbiamento è la conseguenza di un sistema». È il silenzio pieno di terrore, è il frutto di una burocrazia che volta le spalle alle persone, che calpesta gli esseri umani. Per il profitto e la criminalità.
«In questo sistema – denuncia Omizzolo – non ci sono solo i padroni, ma anche i padrini, spesso esponenti della classe dirigente, politici che stanno dalla parte degli sfruttatori. Che sono sfruttatori. Ecco perché i lavoratori perdono fiducia nella denuncia e subiscono».
La situazione non può evolvere. Deve cambiare. Radicalmente.
«Bisogna spostare il focus da una vertenza sindacale ad una riflessione politica più ampia. È la politica che deve agire per rompere questi legami in modo definitivo. Non si tratta più di infiltrazione, ma di radicamento. Di una dimensione che continua a vivere, nonostante le leggi ed i processi aperti. Servono buone norme, buone procedure, riconoscendo, prima di tutto, la dignità delle persone. Non possiamo pensare di cambiare la velocità di una macchina, cambiando solo le ruote. Bisogna ripensare il sistema, ponendo al centro il lavoro e le persone, abrogando quelle norme che sono la base del trattamento differenziato. Di un’esistenza differenziata».

La riflessione guarda anche alle politiche sulle migrazioni e la cittadinanza. Tra le norme da cambiare il giornalista lucano cita «la legge Bossi-Fini: dobbiamo partire dal presupposto – spiega – che il lavoratore è prima di tutto una persona. La sua condizione di fragilità stabilita per norma influenza la sua attività lavorativa, ma anche la sua attività sociale. Da qui la formazione di ghetti, di forme di emarginazione: da Rossano a Rosarno, Castel Volturno… ma realtà simili sono presenti anche in Lombardia, Veneto e Toscana. È un problema che riguarda tutta Italia e tutti noi, perché siamo dentro lo stato delle cose come uomini, donne, cittadini e consumatori».
Al centro dell’enciclica Laudato si’, secondo Papa Francesco il tema del lavoro può trovare nella cura dei rapporti umani un buon alleato: «Non è utopia, è un orizzonte raggiungibile. Bisogna solo avere il coraggio e la forza di piantare i propri occhi negli occhi degli altri. E consentire anche agli altri di fare lo stesso con noi. È l’accoglienza: è la prima attività di cura. Significa che ogni persona viene riconosciuta, che ogni percorso è paritario e condiviso».
Non sarà più necessario abbassare la testa, «piuttosto sarà utile incontrarsi con lo sguardo per camminare insieme. Per stare con le persone con cui lavoriamo. Stare accanto, senza colonizzarle. Vivendo con loro, senza imporre. Papa Francesco dice che questa forma di accoglienza è possibile: pratichiamola».v