dono

N.26 Dicembre 2021

SPORT & VITA

Astutillo, il bello del calcio è uno scudetto in umanità

Due chiacchiere con Malgioglio, portiere campione d'Italia appena insignito dal Quirinale con l'Ordine al merito della Repubblica per l'impegno con i bambini affetti da distrofia che conquistò anche Klinsmann e il Trap

Appiano Gentile, inizio anni Novanta. L’Inter dei record allenata da Giovanni Trapattoni ha appena concluso l’allenamento. Più che una squadra, sembra una parata di stelle e di giganti del calcio internazionale. C’è lo “zio” Beppe Bergomi. Ci sono il formidabile terzino Andy Brehme e Lothar Matthaus che ha appena ritirato il Pallone d’Oro. C’è anche l’Uomo Ragno, Walter Zenga. E poi c’è il suo vice, un portierone mite e silenzioso con i baffi e l’accento piacentino: Astutillo Malgioglio. Per gli amici è “Tito”.

«Ma dove scappi tutte le volte?». Jurgen Klinsmann non capisce perché Tito sia sempre di fretta. «Vieni a vederlo con i tuoi occhi».
Un paio d’ore di macchina e Klinsmann (forse il miglior attaccante del pianeta in quel momento) si trova al fianco di Tito, nella sua Piacenza. La destinazione finale è il centro di riabilitazione ERA77, fondato dallo stesso Malgioglio insieme alla moglie per fornire assistenza e supporto quotidiano ai giovani affetti da distrofia. I ragazzi abbracciano Tito. Klinsmann ne è colpito, si affeziona e chiede di tornare. Non è da tutti, con la notorietà e la pressione tossica che spesso condannano il calcio di vertice al distacco, portare il corteggiatissimo centravanti dell’Inter e della Nazionale tedesca in provincia, a trascorrere il suo tempo libero in una palestra per disabili.

Trent’anni dopo, la debordante umanità di quel portiere alto e generoso che riuscì nell’impresa ha trovato un riconoscimento ufficiale. Mai chiesto, mai preteso, ma in fondo doveroso. Insieme ad altri 32 eroi, Astutillo Malgioglio è stato ricevuto al Quirinale e insignito del premio di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. «Per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell’assistenza e dell’integrazione dei bambini affetti da distrofia».

Cresciuto nella Cremonese e poi professionista per 15 anni tra il 1977 e il 1992, quasi sempre in Serie A, vincitore di uno Scudetto in nerazzurro nel 1988-89, Malgioglio è stato un calciatore diverso. Unico nel suo genere. Perché ha dedicato la vita ad una missione, senza limitarsi ad elargire soldi o prestare la propria immagine. Ha donato tutto sé stesso, le sue giornate, le sue energie, i suoi progetti, e continua a farlo, porta a porta, assistendo i suoi ragazzi. L’ha fatto anche quando dalla curva, o dagli uffici della dirigenza, gli urlavano che avrebbe dovuto concentrarsi solo sul calcio. L’ha fatto mettendo in gioco la sua carriera.

Astutillo oggi ha 63 anni, vive sulle colline piacentine e ci risponde nel mezzo di un sabato mattina impegnato. Dedicato come sempre al prossimo, agli ultimi, ai disabili. Sta svolgendo il canonico servizio di assistenza domiciliare. In questo periodo, sull’onda dell’onorificenza, l’ex portiere di Roma, Lazio e Inter è richiestissimo dai media nazionali. Trova comunque il tempo per fermarsi e per raccontarsi anche a noi, con parole sempre autentiche e mai scontate.
«Devo essere sincero, credetemi, non penso di meritare questo premio. Da solo non avrei fatto nulla, il riconoscimento va condiviso con tutti i ragazzi che mi hanno accompagnato in questo cammino. Soprattutto con quelli che non ci sono più, con le loro splendide famiglie».

In molti ora raccontano il suo impegno quotidiano per i disabili. Proviamo però a ripartire dall’origine: quel giorno in cui scattò la scintilla, in cui decise quale sarebbe stata la sua missione.

«Non avevo nemmeno vent’anni. Giocavo già in Serie A nel Bologna. Un amico, attivo nel volontariato, mi spalancò le porte di un centro per portatori di handicap. Ricordo ancora il senso di emarginazione, la sofferenza. Un pugno nello stomaco. Decisi che avrei fatto qualcosa per loro. Ma forse era già tutto scritto: mi piace pensare che qualcuno, da lassù, abbia deciso che il mio talento e la mia carriera sarebbero serviti proprio per questa causa».

Eppure non ha mai nascosto le sue critiche al mondo del calcio professionistico…

«Purtroppo ci sono finito dentro. Dico purtroppo perché non ne condividevo l’esasperazione e i toni. Ma ripeto, evidentemente c’era un disegno superiore. Il Signore aveva un piano per me. Tante volte ho dichiarato che mi sento solo uno strumento: uno strumento nelle mani di Dio».

Anche grazie al suo nome e ai suoi guadagni, la struttura ERA77 (da Elena, nome della figlia nata nel 1977, con Rossella, la moglie, e Astutillo) ha aiutato per vent’anni intere generazioni di giovani colpiti da distrofia. Ma i suoi colleghi lo sapevano? Lo capivano?

«C’era parecchia indifferenza, normale che fosse così. Non bisogna però dimenticare le eccezioni. Penso a Klinsmann, che seguendomi dopo gli allenamenti a Piacenza, e frequentando i miei ragazzi, disse di sentirsi rinnovato come uomo. Certe esperienze gli cambiarono la vita. Ancora oggi ci sentiamo. E poi Giovanni Trapattoni. Un grande in tutti i sensi. Ho avuto centinaia e centinaia di compagni di squadra nei professionisti, decine di tecnici: tutti più o meno di passaggio. Molti di loro non li ricordo nemmeno più. Il Trap no, il Trap è per sempre».

I cinque anni nell’Inter trapattoniana furono i più belli?

«Una squadra fantastica. Ma c’era altro. Per la prima volta mi sentivo davvero compreso. Il Trap non solo rispettava, ma condivideva la mia visione dello sport come modello positivo. Un mezzo per fare del bene e trasmettere un messaggio, senza mai perdere un certo equilibrio morale. Mi volle a Milano a tutti i costi. Non ero primo nelle gerarchie, c’era Zenga. Eppure, anche senza giocare, per lui ero “titolare inamovibile” come presenza carismatica dello spogliatoio, come punto di riferimento della rosa. Si fidava molto, ci capivamo senza parlarci. La nostra connessione era basata sulla condivisione di certi valori, genuini, che partivano dall’oratorio e nel mio caso si sono rafforzati negli anni del vivaio della Cremonese, un ambiente familiare e pieno di belle persone. Si è detto e scritto tanto sul Trapattoni allenatore, vincente un po’ ovunque. Del Trapattoni uomo straordinario, invece, troppo poco. Ed è un peccato, perché questo suo lato avrebbe dovuto emergere con maggiore forza».

Proviamo a non generalizzare. Ma il mondo del calcio iper-professionistico, quello dei calciatori-influencer rinchiusi nelle loro torri d’avorio e dei procuratori che dettano legge, oggi, ha perso quella dimensione più umana?

«Veda, sono fuori dal calcio professionistico ormai da tanti anni. Ho chiuso la mia carriera a 34 anni, nel 1992. Da allora ho fatto tutt’altro. Non posso giudicare da fuori o banalizzare un mondo che non conosco, in questo senso non sono nessuno. Di sicuro, se il calcio oggi vive una certa crisi, la colpa non è dei calciatori. Loro non sono altro che il prodotto finale del sistema. Vengono abituati fin da piccoli a seguire certi modelli, che propongono valori frivoli».

E invece? Cosa dovrebbe incarnare un calciatore professionista?

«Di sicuro un modello edificante. Per i giovani e per la società. Ricordo di aver letto di Dimitri Bisoli, centrocampista del Brescia, che durante il lockdown del marzo 2020 ha aiutato alcuni volontari nella distribuzione dei pasti e della spesa per le persone in difficoltà. Una storia che riempie il cuore e che può ispirare, generando imitazione».

Segue ancora il calcio?

«Se capita una bella partita in televisione, perché no. Ma la guardo da spettatore. E solo sulla Rai o sui canali in chiaro. Non ho abbonamenti alle pay tv, lascio ad altri i commenti da specialisti. In compenso continuo a giochicchiare: fino all’avvento della pandemia, praticavo il calcetto integrato. Tipo il baskin, con vari livelli di abilità e disabilità per i vari componenti della squadra che però giocano tutti insieme».

(Pausa)

«Ora mi spiace… ma devo andare. Siamo da una bimba, sto per iniziare l’attività di psicomotricità. Grazie e tanti auguri».

Ecco dove “scappa”, tutte le volte, Tito.

ORDINE AL MERITO DELLA REPUBBLICA

Tra i 33 campioni di altruismo premiati da Mattarella al Quirinale

Astutillo Malgioglio, 63 anni, Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell’assistenza e dell’integrazione dei bambini affetti da distrofia.”
Ex portiere di calcio. Ha giocato per Brescia, Pistoiese, la Roma di Nils Liedholm finalista di Coppa Campioni e di Eriksson, Lazio e Inter di Trapattoni con cui ha vinto scudetto e coppa UEFA, per terminare all’Atalanta. Ha fondato l’associazione “ERA 77” per il recupero motorio dei bambini affetti da distrofia, chiusa nel 2001 per carenza di fondi. Oggi è testimonial in iniziative benefiche, sviluppa progetti di sport terapia e continua a battersi per l’integrazione nello sport fra disabili e normodotati.
Nel 1977, diciannovenne, visitando un centro per disabili nel Bresciano, sente di doversi impegnare per i meno fortunati. Insieme alla moglie Raffaella, fonda a Piacenza l’Associazione ‘ERA 77’ dedicandosi ai bambini distrofici. Con l’ingaggio da calciatore, realizza una palestra per fornire un servizio gratuito di attività motoria. Da allora non ha mai smesso, tenendo sempre caro nel cuore quello stimolo ad impegnarsi per il prossimo, nato durante la sua esperienza a Brescia.

fonte: quirinale.it