partenze

N.37 Gennaio 2023

MESTIERI

Sta nelle scarpe il segreto di un fotografo

Giulia Barbieri racconta come l'incontro con Angelo Cozzi, maestro del fotoreportage, le abbia insegnato che ogni scatto è un nuovo viaggio

Era mercoledì mattina e la stanza dal parquet scricchiolante dell’università stava per accogliere Angelo Cozzi, uno dei maestri del fotogiornalismo italiano. Avevo letto di lui durante la preparazione dell’esame di fotografia, avevo studiato nel dettaglio le sue immagini, il suo personalissimo punto di vista sui reportage di guerra così vicino a quello di Capa: sempre dentro alla scena, mai un passo indietro. Nell’attesa tamburellavo nervosamente le dita sul foglio ancora immacolato della mia Moleskine, milioni di informazioni, curiosità, interrogativi, rimbalzavano nella mente come palline da pin pong impazzite. A ventiquattro anni stavo per conoscere un personaggio verso il quale nutrivo la stessa reverenza che un giovane giocatore di calcio riserverebbe a Leo Messi. Angelo Cozzi al termine dell’incontro, e ancora non so esattamente per quale ragione, si avvicinò a me con al collo la sua Canon 5D Mark II e mi chiese:

Giulia Barbieri con Angelo Cozzi

Diplomato in fotografia, iniziò la sua carriera di fotografo nel 1951 presso una nota agenzia di Milano. Nello stesso anno venne inviato nel Polesine per documentare la zona devastata dall’alluvione. Nel 1959 iniziò la sua collaborazione con la Arnoldo Mondadori Editore e con la rivista Grazia, per la quale visitò molti paese di mondo, tra cui la Groenlandia, gli Stati Uniti e l’Estremo Oriente. Collaborò anche con la rivista Epoca e nel 1966 si interruppe il lavoro per Mondadori. Nel 1967 iniziò a collaborare con La Domenica del Corriere, sulla cui copertina venne inserita l’immagine dell’incoronazione dello Scià di Persia e di Farah Diba. Il fotoreporter Cozzi nel 1967 documentò i tragici avvenimenti della guerra dei sei giorni nel Sinai e nel 1968 fotografò la guerra del Vietnam. Nel 1969 negli Stati Uniti si occupò della missione Apollo 11 e nel 1970 compì un reportage sul Settembre Nero ad Amman e fu a Praga per i funerali di Jan Palach. Dal 1986 si dedicò alla fotografia pubblicitaria.
fonte: Wikipedia

«Qual è il segreto di un fotografo?» «L’occhio?» risposi. “…l’istinto? Il punto di vista?” Lui a quel punto prese a fissare il paio di All Stars sgualcite che indossavo. «Non puoi fare questo lavoro con quelle, dovresti cambiarle prima possibile». E io, che ancora faticavo a comprendere il grado di connessione tra un paio di scarpe e il segreto di un fotografo, annuii senza spiccicare parola.
Oggi mi occupo di persone attraverso l’obbiettivo della mia macchina fotografica, racconto le loro storie. E per farlo sono serviti viaggi, terre di mezzo, nottate in aeroporto ad interrogarsi sul significato più profondo di questo transitare nella vita. È servito entrare ed uscire dalle terapie intensive nel pieno di una pandemia, i dubbi, la ricerca costante del senso del limite, trovarsi faccia a faccia con la morte e continuare comunque a scattare. Con le ginocchia che tremano, il cuore strizzato, l’incapacità assoluta di rimanere verticale di fronte al dolore.

Non si tratta solo di fotografare, è qualcosa che finisce per somigliare ogni volta ad un nuovo viaggio, ad un mestiere che obbliga a (ri)partenze pressoché quotidiane. Incerte e timorose come una barca che naviga nel pieno della tormenta per poi tornare ammaccata ma salva nel porto dopo averla attraversata.

E tutto ciò che sta nel mezzo è così enorme da riuscire a contenere tutto. Fare questo lavoro in prima linea significa convivere con la certezza assoluta che qualunque cosa accada, per quante armature tu possa decidere di indossare, ci saranno pezzetti nemmeno troppo marginali di te che rimarranno dentro a quelle stanze, immagini così dolorose da essere salvate in sottocartelle di altre sottocartelle per non correre il rischio, magari un giorno, per caso, di tornarci sopra. Ci sono partenze che sono fughe, illusioni belle e buone ed altre che si traducono in un nuovo inizio. Dopotutto lo insegnano i viaggiatori più esperti quanto determinante sia “il periodo finestra”, lo spazio di tempo necessario per comprendere realmente chi siamo e a che punto del nostro cammino identitario ci troviamo. Sono serviti otto anni da quell’incontro in università per comprendere che occorre indossare le scarpe giuste per camminare in punta di piedi lungo il bordo delle vite degli altri. Otto anni per capire che una fotografia si costruisce nello stesso identico modo in cui si costruisce la vita: un gradino alla volta, un errore alla volta. Una partenza alla volta.