velocità

N.49 aprile 2024

rubrica

Il cinema che va di corsa

Per inseguire o scappare, travolti da un tornado o dalla passione per lo sport: quante volte abbiamo visto i protagonisti dei film di ogni epoca mettersi a correre, lasciando anche noi spettatori a corto di fiato...

È una sorta di attrazione fatale quella che il cinema – “scrittura del movimento” – prova per la velocità. Basti pensare a Fast & Furious, franchise americano incentrato sulle corse di auto clandestine nato negli anni Duemila e arrivato già alla decima edizione, senza contare gli spin off e i cortometraggi che ha generato. Certo, la fretta e la spinta all’accelerazione tipiche dei nostri tempi hanno impresso un ulteriore dinamismo al ritmo dei film e al loro contenuto, ma il fascino della frenesia al cinema ha origini antiche. Per esempio i phantom rides di fine Ottocento consistevano in riprese effettuate dalla testa di un treno in movimento: l’effetto per gli spettatori era quello di assistere a paesaggi ripresi in corsa e continuamente sfuggenti. Oppure Velocità, film del pittore futurista Pippo Oriani, realizzato in collaborazione con Tina Cordero e Guido Martina tra il 1931 e il 1933, nel quale oggetti rotanti, macchine, manichini articolati e coreografie visionarie suggeriscono l’esperienza di un incessante, rapido movimento.

Anche la corsa ha una lunga storia di presenze sullo schermo, a cominciare degli inseguimenti dei Keystone Cops, un gruppo di poliziotti maldestri all’origine della slapstick comedy americana, frequentemente costretti a lunghe e velocissime corse piene di insidie per catturare i malviventi.

Nel cinema degli anni Dieci (del Novecento), particolarmente in quello di carattere popolare, la corsa riveste una doppia funzione: da una parte serve a creare un orientamento vettoriale, il senso di una direzione che alterna inseguitori e inseguiti in spazi contigui. Dall’altra suggerisce l’idea del movimento, quasi un antidoto alla staticità dello spettatore che rimane fermo e seduto durante tutto il tempo della proiezione.

I comici del muto si lanciano in corse eccezionali, come all’inizio de Il circo (di Charlie Chaplin, 1928), quando Charlot si trova costretto a scappare dal poliziotto che lo accusa di aver rubato un portafogli ingaggiando una spettacolare (e virtuosistica) corsa parallela con il vero ladro del portafogli, reo di averlo infilato – per sviare i sospetti su di sé – nella tasca del vagabondo.

Non gli è da meno Buster Keaton che nel medesimo anno interpreta Io… e il ciclone (Steamboat Bill Jr., di Charles Reisner, 1928) in cui cerca disperatamente di resistere alla forza aggressiva di un ciclone che lo trascina ovunque correndo – con sforzi sovrumani – nella direzione opposta.

Qualche anno dopo, la corsa cinematografica comincia ad assumere valenze più esplicitamente metaforiche. Nel suo celebre film d’esordio, I quattrocento colpi (Les Quatre Cents Coups, 1959), François Truffaut dedica gli ultimi minuti alla fuga del protagonista Antoine Doinel, interpretato da un giovane Jean Pierre Léaud, dal Centro d’osservazione per minori traviati dove è rinchiuso. Dopo i primi istanti in cui Doinel riesce a depistare un sorvegliante dell’istituto che lo ha seguito, la sua lunga corsa diventa un lento e progressivo inno alla libertà, che si manifesta dapprima negli spazi aperti che circondano il protagonista, e quindi nel motivo musicale di Jean Constantin che lo accompagna, fino alla scoperta e al contatto con il mare, a un’immensità che sola si dimostra in grado di comprendere tutti i desideri e le frustrazioni del ragazzo.

Sempre la corsa è il tema portante di Gioventù, amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner, di Tony Richardson, 1962), film manifesto del free cinema inglese tratto dal romanzo di Allan Silitoe La solitudine del maratoneta. Di nuovo il protagonista, questa volta un giovane di qualche anno più grande (interpretato da un venticinquenne Tom Courtenay), è rinchiuso in un riformatorio in seguito a dei furti. La corsa di fondo, alla quale si dedica con assiduità nell’ambito di un programma di risocializzazione dei detenuti attraverso lo sport, promosso dal direttore dell’istituto, gli spalanca spazi ampi di libertà e di pensiero.

La sua felicità è però turbata dai ricordi, nei quali rivive drammaticamente in flashback – e con lui lo spettatore – le vicende che lo hanno portato fin lì: la povertà, l’emarginazione sociale, ma anche un ribellismo spesso improduttivo, che lo porta a una fine imprevista

Ma cerchiamo ora di accelerare.

Una celeberrima corsa cinematografica è quella di Forrest Gump (di Robert Zemeckis, 1994) il quale, spinto da un abbandono amoroso, inizia a correre senza mai fermarsi, privo di una vera motivazione ma semplicemente proteso verso il futuro, nella direzione della Storia.

Anche Lola corre (Lola rennt, di Tom Tykwer, 1998) incontro al nuovo secolo e a nuove modalità narrative dal momento che la sua storia – quella di una ragazza chiamata in aiuto dal fidanzato per portargli entro venti minuti una somma ingente di denaro, pena la vendetta di pericolosi criminali – è totalmente condizionata dal variare del tempo. Un momento prima per Lola le cose si mettono male; un attimo dopo il suo destino può cambiare in meglio. Nella triplice costruzione del plot, il film vuole sottolineare come ogni azione (tanto più la corsa) avviene in un tempo preciso che ne condiziona gli effetti; ma anche in un dato spazio, come la città di Berlino di fine anni Novanta, dopo la caduta del muro, dove la corsa verso il futuro della storia trova spazi narrativi più ampi.

Questa carrellata potrebbe continuare, ma è ora di provare a tagliare il traguardo.

Perché è così affascinante la corsa sullo schermo? La risposta l’avevano in parte già data i primi comici: perché il movimento – come spiegano le teorie di psicologia cognitiva, e anche le più recenti ricerche sui neuroni specchio – attiva l’immediato riconoscimento dello spettatore in particolare nelle azioni, orientate a un fine specifico come la corsa[1].

Con buona pace delle persone pigre, che possono accontentarsi della fatica dei personaggi sullo schermo. Mentre i veri sportivi meritano, come ricompensa, la lettura di un delizioso libretto di Gastone Breccia, La fatica più bella. Perché correre cambia la vita (Laterza, 2020). 


[1] Sul rapporto tra cinema e neuroni specchio si veda Vittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2015.