ombre

N.34 Ottobre 2022

RUBRICA

Il cinema, ombra del sogno

Dal mito platonico della caverna a Bertolucci, quando il film sceglie le ombre per portarci fuori dalla realtà e scavare (scarvarci) nel profondo

Un fotogramma tratto dal film "Il conformista" di Bernardo Bertolucci (1970) / fonte: Youtube

Se c’è un mito capace di spiegare il cinema e il suo funzionamento è quello della caverna di Platone, contenuto nel settimo libro de La repubblica. A suggerire il parallelismo è innanzitutto la condizione dei prigionieri incatenati nelle profondità di una caverna, con lo sguardo rivolto verso la sua parete più interna, opposta all’ingresso. Alle loro spalle, all’esterno, è acceso un grande fuoco e, fra il fuoco e i prigionieri, è interposto un muro che corre lungo una strada rialzata. Quando alcune persone portano sulla loro testa (forme di) oggetti, piante o persone, questi proiettano sulla parete della caverna la loro ombra cosicché i prigionieri, i quali non hanno nessuna consapevolezza del mondo, la scambiano per la realtà delle cose. Se poi qualcuno degli uomini che trasportano questi oggetti parlasse, le voci formerebbero nella caverna un’eco che i prigionieri attribuirebbero alle ombre stesse. Nella prima parte del mito sono presenti tutti gli elementi che identificano il dispositivo cinematografico: un pubblico fermo con lo sguardo fisso verso una parete, lo schermo, alle spalle del quale è posto un fascio di luce, quello del proiettore cinematografico. L’ombra delle cose, piatta e bidimensionale, costituisce il film proiettato, mentre l’eco che risuona è quello del sonoro. Una volta liberati, i prigionieri devono abituare i loro occhi alla luce del sole, e imparare a distinguere le ombre (che credono realtà) dalle cose vere e proprie: l’uscita dal cinema, che ha ben raccontato Italo Calvino, è un graduale processo di dismissione dal sogno e di progressivo ritorno al reale.
La precisione del mito, che precede di oltre duemiladuecento anni l’invenzione del cinema, ha trovato larga eco anche nei film, prestandosi a interpretazioni diverse. Ne Il conformista di Bernardo Bertolucci (1970), per esempio, il mito della caverna è rievocato dal giovane docente di filosofia Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant) che, per conto della polizia segreta fascista sta per tendere un agguato mortale al suo maestro, il professor Luca Quadri, rifugiatosi in Francia.

La posizione dei due personaggi, verso la fine della sequenza, rivela la loro collocazione morale alla luce del mito: mentre il vecchio professore è vicino alla sorgente luminosa, rappresentata dalla finestra, perché è in grado di vedere la negatività del regime, l’allievo che si è venduto alla polizia segreta, accecato da questa, proietta la sua ombra contro la parete opposta.
D’altra parte l’ombra, come insegnano Ernst Gombrich e Victor Stoichita, i quali hanno riflettuto a lungo sulla sua presenza e il suo significato nelle arti figurative, è materia viva al cinema non solo per il suo portato estetico o filosofico (l’ombra come doppio, come altro, come superficie oscura e angosciante), ma anche per la componente autoriflessiva di cui si fa carico.
Si possono fare due esempi, al riguardo, riferiti al primo periodo della storia del cinema, perché è il momento in cui si stabilizzano degli archetipi a cui attingeranno in seguito i registi e i direttori della fotografia.
Il primo è tratto da I prevaricatori (The Cheat), un film di Cecil B. DeMille del 1915 in cui la contiguità tra due spazi in cui si svolgono azioni differenti è suggerita da una parete con carta di riso, illuminata dall’interno, sulla quale si stagliano le ombre dei personaggi. Il film racconta di una donna altolocata che, per i suoi capricci e per un dissesto finanziario, chiede aiuto a un ricco commerciante giapponese il quale, in cambio dei denari prestati, vuole che divenga la sua amante. Alcune delle azioni salienti del dramma si compiono di là dalla parete, e si intuiscono attraverso le ombre. Dal punto di vista narrativo, queste servono a stemperare la crudezza del racconto, mentre forniscono un’apertura sulla dimensione nascosta e duplice della psicologia umana. (dal minuto 37,36)

Nello stesso tempo, le ombre ricordano agli spettatori del 1915, non ancora avvezzi al realismo del cinema, che sul set gli attori recitano simulando le varie azioni, proprio come le ombre della caverna platonica.
Il secondo esempio appartiene al cinema espressionista, un movimento sviluppatosi in Germania negli anni Venti nel solco di un sensibile sviluppo delle arti, votato in particolare a una rappresentazione eccessiva e distorta della realtà, come frutto di una percezione soggettiva. Nel cinema sono considerati capostipiti film come Il gabinetto del Dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, di Robert Wiene, 1920) e il più celebre Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, di Friedrich W. Murnau, 1922) la cui natura orrorifica è proprio espressa dall’ombra del protagonista.
Nel 1923 esce anche Schatten, ombre ammonitrici (Schatten – Eine nächtliche Halluzination) di Arthur Robison, un film ambientato nel Seicento in cui si racconta come durante una festa, un marito geloso creda di vedere il tradimento della moglie attraverso delle ombre che restituiscono un’immagine in realtà inesistente dell’episodio. Un ipnotizzatore presente, che ha capito le ragioni dell’inganno, dopo aver ipnotizzato gli ospiti mostra attraverso le loro ombre tutti i loro desideri e le paure nascoste. In tal modo essi riescono a liberarsene.
Si tratta di un film che, a livello stilistico, evidenzia l’elevato livello raggiunto dal cinema muto tedesco nell’utilizzo di specchi, ombre e luci, ma soprattutto, attraverso una costruzione elaborata, utilizza il motivo del doppio (l’ombra) con una notevole carica di significati che vanno dalla dimensione psicanalitica a quella simbolica relativa al potere e al controllo esterno sulla vita delle persone. E, nello stesso tempo, gioca con una rappresentazione nella rappresentazione, mostrando i protagonisti del film che assistono a uno spettacolo di ombre cinesi, premessa di ciò che sta per accadere loro.

Insomma: un film che rimanda continuamente al profilo delle ombre che il cinema suggerisce e realizza.
Ma questi non sono che spunti. Per i cinefili che volessero uscire dalla caverna – pardon, dalla sala! – e illuminare il mistero delle ombre, c’è l’acuto saggio di Antonio Costa, Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile (Einaudi, 2021) a fare da utile compagno di viaggio.