caos

N.47 febbraio 2024

parole

La poesia di Francesca: l’armonia che riempie il mio caos

Francesca Carolina Fedeli, psicologa e scrittrice, ha trovato nei versi e nella scrittura un'ancora di salvezza dal caos interiore "preconfezionato"

Scrivere per ritrovare sé stessi, per rimettere ordine alla propria vita nei momenti più difficili e pesanti, quando intorno sembra esserci solo il buio ed il nulla, quel Cháos primigenio che nella mitologia greca indicava lo spazio vuoto ed oscuro da cui tutto ha origine.

Parole che si affacciano alla mente per comporre frasi, che riordinano pensieri che a loro volta diventano versi di una poesia o brani di un racconto: una terapia per l’anima ferita in cerca di un conforto, che sorprendentemente nasce (e gli antichi greci ci avevano visto giusto anche in questo) proprio da un caos interiore, da quella burrasca di sentimenti che esplode nel petto e toglie il fiato. Ma che Francesca Carolina Fedeli è riuscita a catturare con la sua penna per dargli un nome ed un volto, riportandolo sulla carta nelle sue poesie e nei suoi racconti e riuscire a fare pace con se stessa.

Psicologa di professione, scrittrice e poetessa per passione fin dall’adolescenza, mamma di un bimbo di 5 anni, Francesca ci racconta il suo percorso personale e mette a nudo le sue cicatrici per spiegare come è riuscita a trovare la forza di emergere dal caos interiore che la stava schiacciando.

«La metafora più frequente nei miei racconti è che dal fondo dei propri abissi si può risalire – spiega Francesca – anche a costo di distruggere la nostra esistenza e ricostruirla infinite volte». Con immagini semplici, infatti, nei suoi racconti e nei suoi versi Francesca rende accessibili a tutti i propri sentimenti e le proprie emozioni, frutto di quelle esperienze che più hanno lasciato un segno nella sua vita. Due matrimoni finiti, da cui è nato il suo bambino, àncora e punto di luce nel buio degli ultimi anni, poi una relazione che lei stessa definisce “tossica” hanno portato ad un periodo buio, dove la luce si stava facendo sempre più fioca e lontana e durante il quale è nata la poesia Il Traghettatore, dove Francesca, col suo «bagaglio dannato», invoca Caronte:

Io ti chiedo di remare controcorrente

E di strapparmi dalle braccia dei morti

Per restituirmi ai vivi

Una richiesta di aiuto forte, rivolta a se stessa come ci rivela l’autrice stessa: «Io sono il mio Caronte, perché io sola ho la possibilità di scegliere se tornare a vivere, di scegliere su quale riva dell’Acheronte farmi traghettare».

Eppure, nella sua vita, Francesca ci racconta di essere sempre stata una «precisa», una persona molto organizzata, una donna che ha sempre cercato di avere tutto sotto controllo, vivendo quella che lei stessa definisce nei suoi racconti una «vita preconfezionata». Ma tutto questo iper-controllo ad un certo punto incontra un imprevisto: siamo a febbraio 2020 e il mondo viene travolto dalla pandemia. Tutto ora è fuori controllo, il castello ordinato e preciso crolla, gli incastri saltano: arriva il caos.

Ma questo caos esisteva già dentro Francesca in realtà, solo che la sua indole ordinata e controllata non le permetteva di capirlo fino in fondo, men che meno di mostrarlo al mondo esterno, che scorreva incurante. Come quel giovedì che, attraversando per l’ennesima volta la piazza del mercato, Francesca viene raggiunta dall’odore del pesce fritto, che suscita in lei una serie di ricordi ed emozioni dirompenti, di cui però il mondo esterno è del tutto ignaro nel suo quotidiano incedere:

“Un terremoto

Di magnitudo dieci nel petto

E fuori

Tutto normale

Ma torniamo al 2020. Gli eventi si susseguono senza controllo, il mondo si stravolge e anche il matrimonio vacilla, fino a crollare. L’ordine soccombe al caos che stavolta è sia dentro che fuori. Ma è qui che Francesca riprende a scrivere testi e versi, rielabora emozioni, dolore e paure  e capisce: per lei così ordinata sarà proprio questo caos la salvezza. «È ora di lasciare andare, come l’onda che distrugge e si ricompone, che si abbatte sulla spiaggia, ma dopo il suo passaggio ci permette di trovare le conchiglie che, se no, non avremmo mai potuto vedere».

E lo ritroviamo in questi versi:

È la risacca

Di un pensiero

Mai stanco – Giorni felici,

ricordi salati –

A portare conchiglie

Fino al mio cuore

Disteso al sole

Nelle sue poesie si trova ricorrente una certa rassegnazione, intesa non nel senso di sopperire al destino inconsapevolmente ma piuttosto traducibile come una consapevolezza che non possiamo tutto e che questo è un fatto assolutamente umano, il fallimento non è una sconfitta ma un punto di partenza privilegiato: «Bisogna saper distinguere le cose difficili da quelle impossibili. Le prime possiamo riuscire a farle con la costanza e l’impegno; quelle impossibili no. E non è vero che basta volere per potere. A volte bisogna capire che è arrivato il momento di lasciare andare, staccarsi dalle cose impossibili che ci recano solo danno». Dopo queste parole, mi viene alla mente l’immagine di una cimice, che continua imperterrita a sbattere contro quel vetro per cercare di uscire, senza accorgersi che è impossibile passare oltre. Nonostante ciò, continua finché cade stremata. Per questo Francesca ci dice che ad un certo punto bisogna mollare, lasciare andare, cambiare rotta.

La rotta e il viaggio: nelle opere di Francesca troviamo spesso l’immagine del treno e della nave, metafore di un viaggio interiore che va colto al momento giusto, ma che a volte bisogna avere il coraggio di abbandonare per non naufragare.

In un suo racconto, nonostante le numerose richieste di aiuto, una nave – sopraffatta dalla tempesta – affonda subito dopo che il capitano ha finalmente deciso di abbandonare il timone per mettersi in salvo. “Speranza” era il nome della nave. Perché dunque Francesca la fa affondare? «Non sempre la speranza ci salva, a volte ci trascina giù con sé se non capiamo quando è il momento di abbandonarla».

Ma in un altro racconto troviamo di nuovo protagonista la Speranza; stavolta è un personaggio positivo: si chiama Grazia Speranza ed una donna curata che possiede un giardino stupendo, ricco e rigoglioso:

Sapesse quante volte l’ho distrutto prima che diventasse così […]
bisogna tagliare solo ciò che impedisce alla pianta di nutrirsi
e di ricevere il giusto apporto di luce.
Va eliminato ciò che la affatica e la appesantisce.”

La Speranza, dunque, ci insegna anche a vivere con leggerezza, intesa non come superficialità ma piuttosto come la intendeva Italo Calvino, ossia una “sottrazione di peso”, quella positiva leggera rassegnazione di cui si diceva sopra, che anche in questo frangente si conferma il modo per riuscire a elevarsi sopra la nebbia e ritrovare la strada.

Quindi la Speranza è un po’ come l’acqua per un fiore: quando è troppa, alla fine lo fa marcire: «Se le radici affogano, non c’è rimedio».

Dopo questa bella chiacchierata con l’autrice quindi, l’ultima domanda: questo caos quindi cosa ha rappresentato e cosa rappresenta ancora oggi?

«È stato un aiuto a lasciare andare, a ritrovarmi per ritrovare la mia base, me stessa. Senza base non si raggiunge nessuna altezza. Oggi la mia vita è caotica, ma si tratta di un caos positivo, terapeutico. Non ho più una vita normale, “preconfezionata”, ed anche il mio cuore si è un po’ ribellato diventando aritmico, un “cuore anarchico” come lo definisco io, ma vivo emozioni nuove ed uniche».

E il tuo bambino in tutto questo caos? «È la mia àncora, la mia luce. Nei momenti più bui mi facevo forza pensando che alla sera saremmo andati a dormire insieme e me lo sarei coccolato. Ora ad una certa ora stacco il telefono e non ci sono più per nessuno, solo per lui».

Francesca è riuscita a riempire quel Cháos primordiale, il suo vuoto preconfezionato ed ordinato; ci è riuscita trasformandolo in versi e parole per raccontarsi, elaborare e guarire il suo malessere: «Il segreto di un sorriso sempreverde è aver pianto abbastanza».


Dal 2020 Francesca ha pubblicato due volumi di poesie – La vita è adesso e D(‘)istinti e D(‘)istanti– ed una raccolta appena uscita di racconti – Zero metri sopra il livello del mare– . Attualmente è impegnata in altre composizioni.