domani
N.07 Gennaio 2020
Quali tracce
lasceremo nel cloud
«Del doman non v’è certezza», ammoniva Lorenzo de’ Medici nella sua Canzona di Bacco, alla fine del 1400. Un vero e proprio inno al “carpe diem” che il Magnifico inserisce nei suoi Canti carnascialeschi e che fotografa in modo profetico qualcosa che sta accadendo anche oggi, qui e ora, in un mondo globalizzato ma in fondo non troppo diverso da quello della Firenze del Rinascimento e, prima ancora, da quello della Roma imperiale.
Due mondi antichi che, a distanza di secoli e come molte altre civiltà del passato, continuano a stupirci con la loro immensa eredità culturale e materiale, con opere, costruzioni, oggetti; memorie tangibili e immortali che raccontano il lungo percorso dell’umanità verso questo futuro, che ha la pretesa di cambiare tutto.
La Rivoluzione Digitale è infatti un vero e proprio confine, che stiamo velocemente oltrepassando con enormi ambizioni, ma probabilmente con troppo poche domande. L’accelerazione impressa alla nostra civiltà a partire dalla fine del secolo dei lumi, con la prima Rivoluzione Industriale, ma ancor più dalla fine del XVIII secolo, con la diffusione dell’elettricità e con le tecnologie che essa ha abilitato, ci porta oggi a correre a testa bassa verso un futuro del tutto imprevedibile.
Nemmeno un visionario come Jules Verne potrebbe ora prevedere ciò che sarà tra cinquanta, cento o mille anni, perché la tecnologia cui si ispirava il celebre scrittore francese rispondeva ad un progresso lineare, i cui sviluppi non erano impossibili da prevedere, mentre oggi siamo di fronte a tecnologie esponenziali, che in pochi anni o addirittura mesi sono in grado di partorire innovazioni incredibili e già pronte all’uso di massa, com’è stato per lo smartphone e con le molte “rivoluzioni invisibili” che lo hanno accompagnato. Rivoluzioni fatte nell’era dei computer basati sul codice binario, che presto saranno soppiantati da nuovi e strabilianti computer quantistici, capaci di calcoli e operazioni sino ad oggi inimmaginabili, abilitando nuove tecnologie e opportunità.
«Chi vuol esser lieto sia», dunque, in questa epoca di enormi cambiamenti, ma sarebbe bene ci ponessimo qualche importante questione. Cosa resterà di noi e di questa civiltà di passaggio? Dove finiranno le nostre stories, i nostri meme, i nostri trend, i nostri selfie, ma soprattutto le tracce meno futili e più significative del nostro passaggio su questa Terra? Sono molti a concordare che questa prima epoca di dematerializzazione, di archiviazione in cloud e di comunicazione pervasiva, se non addirittura ossessiva, potrebbe letteralmente svanire nella nuvola nel giro di pochi anni, privando noi stessi e i nostri posteri di qualsiasi traccia della nostra esistenza.
Il rischio è concreto. La tragedia del Ponte Morandi di Genova (e non solo quella) dovrebbe averci aperto gli occhi anche su questo: le opere dell’era moderna non sono destinate a durare millenni. La banana di Cattelan ce l’ha recentemente confermato, tra sorrisi e polemiche, ma gli esempi della fragilità delle nostre tracce sono ovunque e in tutti i contesti.
Non stampiamo più, non incidiamo più, non lasciamo opere destinate a sfidare il tempo e quando lo facciamo ci accorgiamo di quanto questa ambizione sia marginale, rispetto ai troppi altri parametri e paletti, per lo più di tipo meramente economico, che condizionano le nostre scelte.
L’eterno sembra aver perso il fascino che sin qui aveva sempre avuto sul genere umano, che oggi è forse più attratto dall’infinito e dalla velocità che serve per illuderci di poterlo conquistare. Abbiamo ancora bisogno di supporti fisici, perché la scienza non ci ha ancora dato la possibilità di smaterializzarci e di teletrasportarci senza la necessità di mezzi di trasporto per i nostri corpi e per quel che serve per tenerli in vita, ma alcuni sognano addirittura un domani in cui le nostre anime siano libere di viaggiare nell’universo (reale o virtuale che sia, ammesso che essi non coincidano) senza i limiti imposti dal corpo.
Se liberarci dal nostro involucro di carne sembra ancora un traguardo lontano, per fortuna, gli effetti della dematerializzazione sono sempre più visibili. Stiamo virtualizzando tutto ciò che può esserlo, dal denaro alle fotografie, dai libri alla musica, passando per molti altri tipi di documenti e oggetti, che sino ad oggi richiedevano supporti fisici. Questo ci sta anche dando l’illusione di avere un impatto minore sull’ambiente: meno carta, meno plastica, meno oggetti da smaltire, ma conservare in cloud tutto ciò che prima tenevamo in casa non è affatto economico, né tanto meno più rispettoso dell’ambiente. A questo si aggiunge il fatto che il quantitativo di materiali che pretendiamo di conservare è aumentato in modo esponenziale, rispetto al passato. Facciamo molte più foto, ascoltiamo molta più musica, guardiamo più film, collezioniamo più libri (che in troppi casi non abbiamo poi il tempo né la voglia di leggere). Mettiamo quasi tutto lì, nella nuvola, spendendo cifre molto piccole o addirittura nulle, perché i servizi di archiviazione e di conservazione documentale online sono molti e spesso addirittura gratuiti, circostanza che comporta un rischio più che concreto: presto chi oggi non vuole nulla (a parte i nostri dati e le nostre informazioni) ci chiederà dei soldi per tenere sui propri server le nostre cose. Per non parlare dei servizi che potranno avere problemi tecnici o finanziari e che lasceranno svanire nel nulla enormi quantitativi di informazioni, se non saremo veloci a scaricarle o se non avremo un backup.
A breve in cloud ci saranno le vite e la storia di miliardi di persone di questa generazione. Ci sarà la musica di intere generazioni, la loro arte, i loro ricordi, i loro pensieri e tutto ciò che servirà tra centinaia o migliaia di anni per capire chi eravamo.
Probabilmente faremo la fine di Atlantide, senza però nessuno che si ricorderà nemmeno il nostro nome. Saremo forse generazioni fantasma che si tramandano blandamente attraverso ricordi confusi e sempre più lontani, mentre l’umanità si espande nello spazio, alla ricerca di nuove risorse e di nuove conoscenze, portando con sé soltanto l’indispensabile, come facevano le popolazioni nomadiche del passato.
Oppure no. In quest’epoca di miniaturizzazione e di compressione, probabilmente troveremo presto il modo di rendere questo mare infinito di dati e di informazioni ancora più piccolo e capace di non occupare più sconfinate praterie di energivori e costosi server, ma lo spazio infinitesimale di nuovi supporti di memoria, capaci di sfidare il tempo, le catastrofi naturali, le guerre e le tempeste magnetiche come le piramidi, le ziqqurat, gli anfiteatri e gli acquedotti romani, i templi dell’antica Grecia e tutte le meraviglie che la storia ci ha regalato e di cui oggi sentiamo il peso economico e morale della conservazione. Ci riusciremo davvero?