ombre

N.34 Ottobre 2022

SPETTACOLI

Storie e personaggi di ombra e di luce

Fabrizio Montecchi ci porta sul palco e dietro le quinte di Teatro Gioco Vita dove la tradizione del teatro delle ombre ha incontrato un fascio di luce che l'ha trasportata in una dimensione nuova, aperta a tutti

foto Serena Groppelli

«Avevo 17 anni. Con l’avventatezza e l’incoscienza di quell’età, andai ad un appuntamento a cui non ero stato invitato. Mi ritrovai in un grande spazio buio, immerso in un profondo silenzio. Di quel momento ricordo bene l’emergere, dall’oscurità del teatro, di uno schermo illuminato».
Sorride con dolcezza Fabrizio Montecchi e chi lo ascolta non aspetta altro che il racconto prosegua lasciarsi accompagnare per mano dove lui vuole. Il regista, tornando con la memoria al momento in cui lesse sul trafiletto di un giornale di Reggio Emilia la pubblicità di un corso di teatro delle ombre organizzato per insegnanti, conclude: «C’è sempre una parte di casualità e di azzardo negli incontri della vita».

Fabrizio Montecchi

Fabrizio era uno studente poco più che adolescente e venne colpito dall’idea di poter unire il teatro, di cui era appassionato, alle ombre, cioè ad una forma di arte visiva. «Ero solo un ragazzo e mi sono trovato coinvolto in un’avventura che, da allora, mi accompagna ormai da più di quarant’anni».

Dopo il Liceo Artistico Fabrizio si sposta a Venezia per frequentare la facoltà di Architettura, «un luogo dove si affinava la propria capacità progettuale, scegliendo poi in che ambito esprimerla». Guardando al percorso svolto, il regista spiega come, da quel primo incontro al buio, abbia continuato senza interruzione a lavorare con il Teatro Gioco Vita. «Non mi sono mai detto “voglio fare il teatro”, è stata l’esperienza di vita che mi ha condotto lì».

Il teatro delle ombre, nella tecnica e nella drammaturgia, si è sviluppato di pari passo con l’evoluzione dell’umanità. Tra ombre e luci, qual è stato l’apporto originale del Teatro Gioco Vita? «In questo caso parlerei di incontri avvenuti al momento giusto nel posto giusto – racconta Fabrizio. Negli anni ‘70 avevamo capito che alcune innovazioni tecnologiche avrebbero potuto avere un impatto sul nostro lavoro. Mi spiego meglio: il classico teatro delle ombre che si ispira alla tradizione cinese o turca si basa sulla cosiddetta “ombra propria” dell’oggetto. Negli anni ‘70, grazie alla scoperta di nuove fonti di luce, abbiamo iniziato una sperimentazione collegata soprattutto alla “ombra portata”. Prima si lavorava attaccati allo schermo, poi lo spazio è diventato tridimensionale. E la compagnia teatrale Teatro Gioco Vita, in quel momento, era lì; ha saputo cogliere la portata della novità diventando, anche grazie all’intensa attività formativa, uno dei fautori del teatro d’ombra contemporaneo».

«L’ombra e la luce,
per la loro natura ancestrale,
parlano in maniera potente
anche all’uomo contemporaneo»


Nonostante la pacatezza con cui Fabrizio risponde alle nostre domande, emerge ugualmente l’intensità magmatica dell’esperienza artistica di quegli anni. Un periodo caratterizzato da un’incessante sperimentazione, dall’esplorazione di nuovi scenari e dall’avvicendarsi di incontri significativi. «Sono state sicuramente tante le persone importanti per la nostra crescita, la prima che mi torna alla mente è Mariano Dolci, grande pedagogo che aveva intuito per primo le nuove possibilità fornite da queste nuove luci. Dove lui aveva seminato, noi abbiamo con pazienza innaffiato per poi coltivare e raccogliere».
Diego Maj, carismatico direttore della compagnia teatrale, intuì che il gruppo di giovani con cui stava lavorando, tra i quali si trovava anche Fabrizio, aveva bisogno non solo di tempo per crescere ma anche del supporto di figure di riferimento. Insieme affrontarono un’avventura entusiasmante ma non per questo facile da vivere. «Ci domandavamo: perché fare teatro d’ombre oggi? Non avevamo una tradizione che ci garantisse una ragione di esistenza. Siamo così andati alla ricerca di tracce d’ombra per recuperare riferimenti da porre a fondamento del nostro lavoro. Abbiamo così esplorato la poesia, la psicanalisi, passando dalle scienze alle discipline artistiche e facendoci guidare da artisti significativi come Lele Luzzati o Tonino Conte».


E al termine degli incontri, delle sperimentazioni e di tutto questo lavoro di ricerca, avete individuato degli ambiti privilegiati per l’utilizzo del teatro delle ombre?
«Sicuramente è perfetto per narrare il mito, per dialogare con la musica e per rappresentare tutto ciò che richiama l’onirico. Ma la nostra scelta artistica è andata nella direzione di dimostrare al pubblico che con le ombre si può rappresentare tutto, dal testo epico alla drammaturgia contemporanea».
Una sfida, possiamo immaginare, ancora attuale. «Certo – conferma Fabrizio Montecchi con parole appassionate – un grande lavoro è stato svolto per legittimare il teatro delle ombre a diverse categorie di pubblico che ci erano precluse, come per esempio con la realizzazione dello spettacolo Circoluna rivolto ai bambini molto piccoli (2-5 anni). Quando riusciamo a incontrare un pubblico adulto la risposta è sempre positiva. Il problema è convincere il sistema teatrale che l’ombra e la luce, proprio per la loro natura ancestrale, sono linguaggi che parlano in maniera potente anche all’uomo contemporaneo».
Nonostante la malia dei racconti di Fabrizio Montecchi ci abbia quasi completamente soggiogato, il tempo e lo spazio di questa intervista stanno terminando. Chiediamo un’ultima immagine, una frase che ci racconti il suo rapporto con l’ombra. Il regista sorride e confessa: «Non riesco a vivere senza porre attenzione all’ombra. Per esempio, se al bar mi portano la tazzina del caffè, io la appoggio al piano e la ruoto fino a che non disegna sul tavolo un’ombra che mi piace. È una sorta di ipersensibilità che mi porta, ogni giorno, a rimanere incantato ad ammirare il più meraviglioso dei teatri d’ombra, di cui non siamo né registi né drammaturghi. È lo spettacolo della natura».