fede

N.48 marzo 2024

rubrica

Vedere… per credere

Perché può essere facile credere a un film, anche se il cinema sa offrire dello stesso soggetto prospettive e modalità di lettura profondamente differenze. Come dimostra il "caso Lourdes"

La fatica di credere non appartiene soltanto all’esperienza religiosa. Ogni giorno facciamo piccoli atti di fede: abbiamo fiducia nel potere di guarigione di una medicina, nelle promesse di un amico, nelle notizie che ascoltiamo dai telegiornali… Anche il cinema, macchina di racconti e di miti, deve gran parte del suo successo proprio a quello che viene definito il “dispositivo della credenza”. Si tratta della capacità che hanno le immagini in movimento di dar vita a un mondo fittizio, facendo sì che lo spettatore creda ad esso come a un mondo vero ed esistente. Al cinema il pubblico dimentica di essere di fronte a una successione di fotogrammi che scorrono su una striscia di pellicola; opera una sospensione del senso di realtà e si affida al potere illusorio di fascinazione delle immagini in movimento. Ciò non avviene a teatro, dove la presenza fisica degli attori che recitano con i loro corpi agisce anche sugli spettatori che, di conseguenza, non cancellano mai la percezione della propria fisicità. Al cinema, invece, si viene trasportati in un’altra dimensione dall’apparenza verosimile, quella di un mondo illusorio che può essere facilmente percorso e attraversato.

Questa sospensione del senso di realtà è connaturata al funzionamento del dispositivo cinematografico, un tema su cui hanno riflettuto da molti anni critici, semiologi e studiosi, da Christian Metz a Jean-Louis Baudry, da François Jost a Roger Odin. Essi hanno spesso paragonato la posizione dello spettatore a quella di chi sogna o si trova in una condizione di dormiveglia: con la complicità del buio della sala, i sensi appaiono allentati, e danno luogo a una sorta di rêverie, un sogno ad occhi aperti.

Se poi si passa dalla “macchina cinema” al contenuto dei diversi film, il senso di realtà si chiarisce e si definisce ulteriormente. Perché, ad esempio, se assistiamo al rituale di caccia di un animale selvatico o alla descrizione dei quartieri periferici di una città del sud del mondo riconosciamo di trovarci davanti a un documentario oppure, in presenza di una storia romantica, siamo certi che si tratti di un film? I diversi testi attivano al loro interno e nei loro immediati dintorni delle istruzioni per l’uso, che processiamo in maniera implicita: ad esempio la scelta delle immagini, il montaggio, i titoli di testa e di coda, così come l’indicazione di genere, la collocazione nel palinsesto, le critiche… Si tratta di elementi che, anche senza indicazioni esplicite, guidano gli spettatori verso l’interpretazione più corretta di un audiovisivo. Per questo riconosciamo immediatamente come reali le immagini di un documentario, mentre di fronte a una fiction capiamo che si tratta di un racconto di fantasia, sia pure dai tratti verosimili.

Roger Odin parla al proposito di modalità di lettura differenti che lo spettatore mette in atto: nel caso di una lettura “documentarizzante” lo spettatore riconosce l’audiovisivo come un documento vero, reale; mentre la lettura “finzionalizzante” viene attivata al cospetto di un film di finzione. Oggi, però, sempre più spesso queste strategie di costruzione e di lettura del testo si confondono: è ciò che accade nelle docufiction, che rielaborano storie vere secondo tecniche tipiche della fiction, incrementando l’attenzione degli spettatori. Oppure nel caso del “mockumentary”, ossia il finto documentario nel quale alcuni tratti fantastici sono presentati come se fossero veri, come nel caso di The Blair Witch Project (di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez, 1999) o Zelig (di Woody Allen, 1983).

Ma torniamo al rapporto documentario/film.

È possibile mettere a confronto i due stili attraverso due testi che – sia pure con qualità e intenti differenti – parlano di Lourdes. Il primo è Il miracolo di Lourdes, di Jésus Gárcia Colomer (2019), una produzione spagnola che nel titolo originario chiarisce meglio il suo soggetto: Hospitalarios, las manos de la Virgen. Il secondo è Lourdes (2009) di Jessica Hausner, un film che racconta il viaggio di una donna affetta da sclerosi multipla al santuario mariano.

In comune i due testi hanno il fatto di essere scarsamente interessati all’aspetto agiografico, ma di porre in primo piano l’esperienza del pellegrinaggio vissuta da coloro che vi prendono parte. Nel documentario Il miracolo di Lourdes, costruito per lo più attraverso interviste, il punto di vista è quello dei barellieri e delle dame che accompagnano gli ammalati nel corso dei pellegrinaggi. Un punto di vista è decisamente interno, tanto da rendere il documentario fruibile soprattutto da credenti, e in generale da persone già orientate a una scelta di fede.

Ciò che colpisce è soprattutto la naturalezza con cui volontari e ammalati parlano della loro esperienza: il “miracolo” di Lourdes è il carico di energia e di motivazione che i barellieri ricevono dagli ammalati che assistono. E la macchina da presa si fa vicina, senza pudori o false ritrosie, ai loro volti e ai loro corpi, a volte cedendo loro la parola, altre volte supplendo ad essa con immagini prolungate.

Anche se il documentario inizia e si conclude con una voice over affidata addirittura alla Madonna, che esplicita l’orientamento interno alla fede religiosa, il suo maggior pregio è quello testimoniale, ancor più nella scelta di normalizzare la rappresentazione della malattia e della disabilità, troppo spesso cancellate dall’orizzonte visivo dei media. Al punto da chiedersi se il vero miracolo di Lourdes, più che l’aiuto annuale dei volontari, non sia quello della tenacia e della forza sorprendente con cui le persone vivono la loro quotidiana condizione di sofferenza, di malattia o disabilità, insieme all’amore dei familiari e di coloro che li assistono ogni giorno. 

Pur molto simile per argomento, il film di Jessica Hausner ha un taglio differente. Il tema del viaggio, luogo forte del racconto cinematografico come esperienza conoscitiva che comporta la maturazione del personaggio, qui rinuncia a qualsiasi gratificazione. A colpire è la freddezza, insolita per un film di finzione, che rende Lourdes molto simile a un documentario; la distanza, quasi, con cui la protagonista si accosta all’esperienza del pellegrinaggio. Il suo itinerario di ricerca sortisce speranze di guarigione (accarezzate per un attimo) e drammatiche disillusioni con cui è costretta a convivere; ma è anche un viaggio alla scoperta di un mondo di persone e di esperienze che mostrano, come la vita e come tutte le cose che la riguardano, aspetti positivi e negativi. Organizzatori, barellieri, dame, sacerdoti, pellegrini, ammalati… tutti i personaggi danno luogo a uno spaccato umano sfaccettato e complesso, nel quale la fede è continuamente messa in questione, soprattutto in rapporto al dolore.

Il viso inquieto e interrogativo della protagonista – che per questo film ha ricevuto l’European Film Award alla migliore interprete – attraversa spazi e situazioni rimandando, a chi guarda il film, il dovere di farsi sempre delle domande, anche sulla fede. L’argomentazione asciutta ma realista, l’osservazione senza filtri ideologici, la capacità di dare spazio a prospettive differenti hanno valso al film, in modo del tutto insolito, un doppio riconoscimento (oltre al premio Fipresci, attribuito dalla Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica): il premio SIGNIS, attribuito dalle organizzazioni cattoliche mondiali in ambito cinematografico (OCIC), e il premio Brian, conferito dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR). Sembra strano, per un film che tratta di uno dei maggiori luoghi di culto e di preghiera europei.

Ma forse questo episodio ci rimanda a un’altra verità. Credere a un film, in fondo, è facile, se questo è ben costruito e rispecchia le regole di ingaggio dello spettatore con il mondo dei personaggi e dello schermo. La fede invece…