caos
N.47 febbraio 2024
La malinconia del caos
Dai disaster movies alla "rivelazione di tutta la potenza che ci tiene legati alla vita e alla terra" affidata da Von Trier a "Melancholia"
Disordine, vuoto, stato primordiale. Il caos, così come è stato raccontato fin dai miti antichi, chiama a sé l’idea del suo opposto: un “cosmo” ordinato, che risponde a delle regole, solitamente identificato con lo spazio siderale dove stelle e pianeti si muovono secondo le leggi precise che lo governano. Sembra un percorso lineare, un divenire che si dispone come sviluppo, maturazione, secondo una progressione logica e ordinata, così come ci ha abituati a immaginare, per esempio, il racconto della creazione del mondo. Il cinema lo ha mostrato, in più occasioni, ricorrendo anche a sofisticate tecniche per visualizzare l’immensità del cosmo.
Ma forse, con maggiore piacere e insistenza, sceneggiatori e registi hanno voluto rappresentare la reversibilità di questo processo, ovvero il ritorno dal cosmo al caos, dall’ordine al disordine. Ne è nato un filone di film, il cosiddetto disaster movie, nel quale catastrofi naturali o causate da errori, guerre e incidenti umani, determinano conseguenze su vasta scala che minacciano la sopravvivenza stessa dell’uomo sulla terra. Si tratta di racconti – solitamente declinati come drammi o avventure anche fantascientifiche – che danno corpo alle paure più ataviche dell’umanità, e che sfoggiano un vistoso repertorio di elementi spettacolari ed effetti speciali. Se dunque non è difficile scorgere un’evoluzione del filone in relazione ai nuovi ritrovati tecnologici, dai primi film ad alto budget negli anni Trenta fino alla ripresa del filone negli anni Settanta e alla sua ulteriore forte espansione dopo l’avvento del digitale, è però necessario leggere in filigrana le assonanze tra i temi affrontati e i periodi storici, anche per mettere a fuoco, attraverso questi racconti, ansie e paure collettive da esorcizzare sullo schermo.
Basti pensare, per limitarmi alle catastrofi naturali, ai terremoti: se fin dai primi anni il cinema si è mobilitato per mostrare gli effetti distruttivi del terremoto in film documentari o per elaborare dei racconti che dessero un senso ai grandi sconvolgimenti avvenuti (L’orfanella di Messina, di Giovanni Vitrotti, 1909), nella grande Hollywood degli anni Trenta ha piegato il dato storico in chiave sentimentale e spettacolare, come in San Francisco di W.S. Van Dyke (1936), ambientato al tempo del terremoto che aveva distrutto la città trent’anni prima.
In Terremoto (di Mark Robson, 1974) viene evocata la paura del “big one” con la distruzione di Los Angeles: gli spettatori partecipano anche fisicamente al dramma grazie a una particolare trovata, il sistema Sensurround che, attraverso alcune frequenze durante le scene del terremoto, fa realmente tremare le poltrone delle platee. Oggi anche la serialità televisiva si aggiunge ai numerosi film sui terremoti, dilatandone la portata: è il caso di Apocalypse – L’apocalisse (2006), una serie diretta da John Lafia in cui un terremoto che distrugge Los Angeles dà il via a un più ampio sommovimento di faglie che determina uno tsunami nelle Hawaii e il risveglio di alcuni vulcani spenti. Anche le eruzioni vulcaniche sono state al centro di alcuni celebri film di fine Novecento, come Dante’s Peak – La furia della montagna (di Roger Donaldson), o Vulcano – Los Angeles 1997 (di Mick Jackson), entrambi prodotti e ambientati in America. Nel Nuovo Continente, dove sono frequenti gli uragani, il cinema ha inoltre portato sullo schermo la furia devastatrice del vento, come in Uragano (di John Ford, 1937), o nel suo remake del 1979, diretto da Jan Troell, e ancora in Twister (di Jan De Bont, 1996) e numerosi altri.
Le paure relative alla fine del mondo, intensificatesi al termine del secondo millennio, spiegano l’elevata concentrazione di film catastrofici nei tardi anni Novanta: il mondo si scopre vulnerabile e teme – almeno al cinema – l’attacco di agenti esterni, come gli asteroidi che piovono in Armageddon (di Michael Bay, 1998) o le comete di Deep Impact, diretto da Mimi Leder (1998).
Anche il film di Lars von Trier Melancholia (2011), come 4.44 Ultimo giorno sulla terra di Abel Ferrara (2011) hanno a che fare con la minaccia della distruzione della terra. Si tratta di pellicole che tuttavia sviluppano una trama differente rispetto alle tipiche narrazioni americane. Nei film hollywoodiani la catastrofe determina la risposta attiva dell’uomo che, grazie al suo ingegno e al suo eroismo, si dà da fare per vincere gli eventi estremi, riuscendovi benché a prezzo del sacrificio di tante vite umane. In questi due film maggiormente autoriali, invece, i registi si soffermano sulle conseguenze della devastazione e sul modo in cui i personaggi si preparano ad affrontarle. Abel Ferrara presenta una situazione in cui gli uomini sono a conoscenza del momento della fine (le 4.44), e devono capire cosa valga la pena fare per aspettare quell’istante: il disorientamento della società, così come la paura e l’isolamento dei singoli si fronteggiano con le scelte dei protagonisti, che trovano nell’amore la risposta più plausibile e convincente.
Melancholia ricorre invece a un linguaggio più allusivo e metaforico per raccontare l’approssimarsi alla terra di un pianeta, Melancholia, destinato a distruggerla. Al centro vi sono due sorelle, Justine e Claire, le quali fronteggiano l’evento con modalità opposte: Claire, razionalista convinta – come il suo nome lascia intendere – in totale difficoltà, deve cedere il ruolo di guida alla lunatica e quasi depressa Justine, che invece vive il temuto momento con coraggio e laica determinazione. Una simbolica capanna che raccoglie insieme quel che rimane di una famiglia è il rifugio (emotivo) ideale per aspettare la fine.
C’è un filo rosso, in questo film ricchissimo di rimandi filosofici e iconografici, che lega indissolubilmente il pianeta, Justine e la malinconia: nella tradizione sono le persone malinconiche – come lo stesso regista, che ha realizzato il film in un periodo di profondo disagio – quelle maggiormente portate a interrogarsi sul senso della fine, sviluppando una diversa forma di sensibilità, quasi a-razionale, che sottende un forte legame di compartecipazione con la terra e il mondo, ben espresso anche sonoramente dall’impiego del preludio del Tristano e Isotta di Wagner e all’inesauribile lotta tra amore e morte cui rinvia.
Con una scelta esteticamente e narrativamente fuorviante, von Trier fa precedere il racconto in due tempi – il primo dedicato a Justine, e alla sua malinconica dissociazione dal mondo; il secondo a Claire e alla sua progressiva perdita di certezze e di forza – da un prologo, nel quale raffinate immagini con effetti digitali (inusuali per il promotore di “Dogma”, un movimento che predicava l’assoluta fedeltà della macchina da presa al reale) raccontano, senza spiegarlo, quello che sta per succedere.
Il ritorno al caos diventa così una cifra narrativa, oltre che estetica e concettuale: solo dopo aver visto tutto il film si capisce pienamente la forza inquietante del lungo segmento di apertura.
Questo film, una «apocalisse senza Dio che tuttavia riesce a tenere acceso un barlume inestinguibile di speranza»[1], lavora nel profondo dello spettatore, suscitando, di là dall’indubbio fascino delle immagini, la voglia di non distogliere il pensiero dall’ingovernabilità del caos, di quella parte oscura dove affiorano le domande senza risposte, le logiche insensate, i pensieri e gli abbagli. Il caos, in Melancholia, non è solo disastro; è rivelazione di tutta la potenza che ci tiene legati alla vita e alla terra. È l’ebbrezza delle infinite domande che insorgono nel cuore dell’umanità, colta appena un attimo prima del buio.
[1] La citazione è tratta dalla bella recensione di Stefano Prandi, Il senso della fine: «Melancholia» di Lars von Trier, «Le parole e le cose2», a cui rimando per un approfondimento sul film (https://www.leparoleelecose.it/?p=2464).