parole
N.24 Ottobre 2021
Le delizie di Tommaso, «buone anche da dire»
Lo chef cremonese Tommaso Melilli è tornato in Italia dopo anni di esperienza di lavoro, ricerca e viaggi all'estero In un libro descrive il suo percorso e con Riflessi ragiona del rapporto tra i suoi sapori e le parole per raccontarli
«Il linguaggio, all’interno di un ristorante, è un codice che va imparato per comunicare nel minor tempo possibile, con il minor sforzo e la massima chiarezza».
Il viaggio di Tommaso Melilli ha inizio nelle nebbie delle campagne cremonesi. Ad un certo punto la sua vita prende la direzione di Parigi dove dovrebbe studiare letteratura, ma un po’ per caso finisce ai fornelli di un piccolo bistrot nel pittoresco quartiere di Belleville. Tommaso oggi è un oste, figura di frontiera tra cucina e sala. Un oste vero che ama cucinare con materia prima di qualità, fresca, stagionale e prodotta da artigiani della terra. E lo vuole comunicare perché questa è una filiera etica ed agricola da sostenere. Ha scritto un libro edito da Einaudi: “I conti con l’oste” è un viaggio personale, introspettivo, profondo, un racconto di questo paese attraverso le cucine e gli occhi delle osterie, posti magici, spesso dimenticati: «Ci penso spesso dopo mesi di riunioni per la nuova apertura di un locale. Oggi sono tornato in un mondo nel quale per mettere in carta un piatto non c’è bisogno di riunioni. Ordino un ingrediente senza dirlo a nessuno e cambio un piatto perché magari le zucchine, quel giorno, sono finite. I ragazzi della cucina mi chiedono: come facciamo? Quelle sei parole contenute nella risposta sono fondamentali».
Tommaso oggi è anima e cuore, insieme al panificatore Davide Longoni, di Contrada Govinda, un panificio con annessa caffetteria e un ristorante che segue i dettami alimentari degli Hare Krishna in un luogo dove negli anni ottanta sorgeva uno dei primi ristoranti vegetariani a Milano: «Il nostro linguaggio è secco, non violento. Qui c’è urgenza, è come quando sei in barca. Non puoi dire “secondo me è meglio fare così”. Non è questione di amare il potere e dare ordini. Detesto farlo, preferirei che chi lavora con me vivesse nella mia testa. Provo a comunicare nel modo più dolce possibile. Però, se manca il pane in tavola, devi dire “pane al tavolo”. E se non arriva lo devi dire più forte».
Esiste anche una comunicazione di sala che è il ponte tra la cucina e chi siede al tavolo: «Uno dei nostri piatti si chiama “ripieno di tortelli di zucca». È zucca arrosto, con una fonduta di parmigiano ed un croccante di mandorle armelline per ricordare gli amaretti perché non posso usare le uova. È un piatto vegetale, gustoso, con sapori contrastanti, quasi rinascimentali. La prima settimana, dal punto di vista commerciale, quando prendevo io gli ordini il conto medio era di trenta euro. Quando li prendeva qualcun’altro, non per colpe proprie, sette euro. Chi vende questo piatto ha cominciato ad ascoltarmi, ricordando le storie che stanno dietro: da chi coltiva la zucca a chi la trasforma in mostarda, che poi sono io».
Nel suo viaggio, l’oste cremonese, ha fatto suoi tonnellate di insegnamenti: «Il cibo deve essere anche buono da dire e da leggere. La prima cosa che fai in un locale è sfogliare il menù. Noi usiamo carta riciclata e lo cambiamo tutti i giorni perché abbiamo sempre qualcosa di nuovo. Si cucina con quello che c’è non con quello che ci dovrebbe essere. Vengo dalla scuola parigina, il menù scritto sulla lavagna è qualcosa che mi piace tantissimo».
La comunicazione, le parole utilizzate per comunicare un piatto sono parte del piatto stesso: «A Parigi un giorno decisi di cucinare la bagna cauda, un piatto di verdure molto colorate con una salsa molto leggera all’aglio, profumata con poche acciughe. Si poneva il problema di decidere, con i colleghi, come chiamare il piatto, perché bagna cauda in francese non vuol dire nulla. Lo abbiamo chiamato “piatto di verdure con la sua salsa all’aglio confit”. Numero di piatti venduti? Uno. Quel nome non creava alcun tipo di eccitazione ed interesse. Decido di mantenere lo stesso piatto, cambiandogli il nome. Diventa “aiolì di verdure alla piemontese”. Costruisco un legame con la sua semantica, con un rimando territoriale all’Europa occitana. Ne vendo venti. Mi diverto. Il terzo giorno stesso piatto, altro nome ancora: “bagna cauda e verdure di stagione”. Ne vendo trentacinque, anche perché il cameriere lo ha assaggiato ed ha il tempo di spiegarlo. Capisci come funziona?».
IL LIBRO
I conti con l’oste
Tommaso Melilli se n’era andato dall’Italia quando aveva vent’anni: a tutto pensava tranne che sarebbe diventato chef a Parigi. Ma dopo dieci anni capisce che certi conti, quelli con l’oste o quelli con le proprie radici, non si possono rimandare e decide di tornare «al paese delle tovaglie a quadretti»
Tommaso è una di quelle persone che non ha paura a dire quello che pensa: «Il vero problema della ristorazione in Italia è che non si può pensare di lavorare sei giorni su sette. È un mestiere usurante. E poi non si può dare sempre la colpa a camerieri. Non sono messi nelle condizioni di amare il proprio mestiere. Al di là dello stipendio, in Francia è obbligatorio concedere due giorni di riposo consecutivi. Se parliamo di comunicazione un errore enorme – e capita soprattutto nelle grandi città – è aprire un locale, assumere un ufficio stampa e comunicazione e scrivere il menù prima di assumere i cuochi. Sembrano fogli excel per la dichiarazione dei redditi…».
Nelle immagini ai lati un piatto e uno scorcio dell’interno di Contrada Govinda.
Al centro Tommaso Melilli con il panificatore Davide Longoni