spazio
N.41 Maggio/Giugno 2023
2021. Odissea…d’emozioni
Cinema e musica: così per il suo capolavoro Kubrik utilizza il suono per aprire una comunicazione «più con il subcosciente e con le sensazioni, piuttosto che con l’intelletto»
“Penso che la musica sia uno dei modi più efficaci per preparare il pubblico e sottolineare dei concetti che si vogliono far notare ad esso. L’uso corretto della musica, e ciò include anche il non-uso della musica, è una delle armi più potenti che un regista abbia a disposizione”.
Questa affermazione di Stanley Kubrick contiene tutto un mondo di considerazioni che si potrebbero fare riguardo al potere della musica (intuitivo? legato alla memoria? mediato? verbale? non verbale? la cultura c’entra? aiuta, non aiuta? che concetti esprimerebbe?) o al legame fra musica e immagine (perché la musica ci deve essere? aiuta che cosa? carica le emozioni o le esprime? su cosa agisce? non si finirebbe di fare domande…).
Con 2001: Odissea nello spazio (1968) cominciamo a comprendere qualcosa di ciò che intendeva il regista: egli infatti ricorre a brani di musica classica per tentare di comunicare “più con il subcosciente e con le sensazioni, piuttosto che con l’intelletto”, per riprendere altre parole dello stesso Kubrick. Una funzione questa che si scopre predominante in un film come 2001: Odissea nello spazio, in cui dialoghi (40 minuti su oltre due ore di film) sono affiancati da potenti sequenze unicamente visive/sonore.
Vediamole queste sezioni, più per renderci conto degli effetti possibili della musica che per aggiungere un’altra interpretazione alle moltissime già date in passato. Perché di una cosa siamo sicuri: così come “ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio” (sempre parole di Kubrick), così la musica, che è quanto più lontano ci possa essere dalle dimostrazioni matematiche, permette un ventaglio di suggestioni amplissimo.
2001: Odissea nello spazio inizia nella preistoria, all’alba dell’uomo, in una piana desolata dove un gruppo di ominidi lotta per la sopravvivenza. Un giorno compare un monolite nero dalle forme perfette che turba la loro esistenza. Quattro milioni di anni dopo, in seguito alle ricerche sul terreno lunare, emerge un monolite nero che improvvisamente emana un segnale radio verso Giove. Nel 2001 l’astronave Discovery si mette in marcia verso Giove per leggere il messaggio inviato dal misterioso oggetto e trovarne il destinatario. Ma vi è un incidente sul percorso: l’intelligenza artificiale Hal 9000 sconvolge la Discovery rivoltandosi contro i propri creatori e compiendo una strage. Unico superstite, Dave Bowman, lo disattiva e alla fine raggiunge Giove dove si rende protagonista di una scoperta che sembra poter aprire a una nuova era della civiltà.
Questa è la trama; vediamo i punti dove la musica entra in azione. La musica sinfonica di Johann Strauss, Also Sprach Zarathustra (1896) appare sottovoce nel momento in cui balena nella mente dell’uomo-scimmia la possibilità di usare un osso come arma e si fa sempre più grandiosa mano a mano che l’arma brandita diventa distruttiva. Qual è il senso della musica? É il ritmo dei timpani sempre più aggressivo che suggerisce la nascita dell’uomo che picchia, lotta e distrugge? É ironico nei confronti del mitico Zarathustra che porta la civiltà insegnando a colpire l’altro uomo? É un sottolineare lo stato primitivo dell’uomo ricorrendo a musica che usa dei fondamentali della tecnica musicale, i gradi basici dell’armonia e della melodia? È la grandiosità tragica del destino dell’uomo che dovrà fare i conti con il male?
Nel film Kubrick sceglie varie opere di un autore contemporaneo, scomparso non molti anni fa, György Ligeti: Atmosphères, parte del Requiem (il Kyrie), Lux Aeterna, e Aventures (1961-1963). É musica fatta di fasce di suoni indistinti, grumi spessi di voci e timbri che si accavallano, non vi è melodia che possa accattivare l’orecchio o accordo consonante, piuttosto è un divenire straniante di fili sonori uno sopra l’altro. Il regista usa questi suoni quando compare il Monolito, simbolo di intelligenza e coscienza superiore, in mezzo agli ominidi, come pure vi ricorre quando avviene il trasbordo tra la stazione spaziale e il luogo lunare dove è stato riscoperto il Monolito. Anche qui possiamo tentare di linkare scena e colonna sonora: la musica enigmatica di Ligeti rappresenta l’enigma di chi si pone delle domande? È il brancolare dello stato brado nella nebbia della mente? È l’angoscia, lo spavento (perché la musica di Ligety non è mai tranquillizzante…), la paura dell’uomo verso il totalmente altro?
È materia pura che si sta per evolvere? È musica apparentemente statica che nelle sue complesse trame interne simboleggia le tante possibilità evolutive future? È un “non tempo” primordiale? Lo stesso tipo di musica interviene il momento in cui Dave nella sua astronave si muove verso Giove seguendo i segnali del Monolito: qui è il flusso della sua coscienza? È la paura di ciò che potrà trovare? È il correre delle sensazioni verso il nuovo?
Vi è poi la memorabile scena del balletto galattico quando il valzer An der schönen, blauen Donau op. 314, composto da Johann Strauss (1866) accompagna la rotazione dei pianeti e della base spaziale, momento diventato un cult per gli amanti della fantascienza ma iconica anche per chi avesse visto la scena una volta sola.
Ebbene, che cosa ha a che fare una navicella spaziale con la spensierata, ariosa, vitale, serena musica di un piacevolissimo valzer?
Si voleva suggerire la leggerezza in uno spazio privo di gravità? Il volteggiare felpato delle forme sferiche? Il procedere senza limiti nel cosmo profondo? La gioia stessa della scoperta di nuovi scenari e dunque la coscienza dell’uomo che si spinge sempre in avanti? Il fascino della conoscenza che è bellezza pura in sé? O ironia verso l’inconsapevolezza di chi va verso destini sconosciuti?
Forse la musica è un intuire a propria immagine, vi si sente quel che si ha già dentro, e quando non vi sono parole che indirizzano il senso – fermo restando che anche in questo caso la risonanza profonda è sempre personale e unica – crea emozioni meravigliosamente indefinite.