sensi

N.46 Gennaio 2024

rubrica

Film da toccare con gli occhi

Alla scoperta del cinema "aptico", capace di dilatare i sensi e... il senso, di un'arte che sa ancora sperimentare e sorprendere

Quando pensiamo ai sensi coinvolti nella visione di un film, ci riferiamo sostanzialmente alla vista e all’udito: la prima ci mette in contatto con il mondo ricreato sullo schermo, squadernandolo davanti ai nostri occhi, il secondo ce ne fa ascoltare le sfumature, cogliere le intensità e percepire i “toni” anche emotivi.

Gli altri sensi – olfatto, gusto e tatto – sono esclusi da questa esperienza: dopo tutto la dimensione materiale del film, in pellicola o in digitale, è quella di ombre (o pixel) che si muovono con diverse combinazioni su una superficie piatta, con una fonte sonora che emette rumori, musiche, suoni. Per questo, nel corso della storia del cinema sono stati inventati dei dispositivi capaci di colmare tali mancanze: per esempio lo Smell-o-vision o ancora l’AromaRama, che risalgono alla fine degli anni Cinquanta, un’epoca di forte concorrenza tra cinema e televisione che imponeva al mercato dei ritrovati per incrementare il valore dell’esperienza cinematografica rispetto a quella televisiva. Si trattava di sistemi di diversa natura volti a diffondere degli odori in corrispondenza di determinate scene del film attraverso gli impianti d’aria condizionata, oppure per mezzo di speciali conduttori posti vicino alle poltrone o ancora, come per l’odorama, reso famoso dal film (trash) Polyester di John Waters (1981), di cartoline distribuite al pubblico da utilizzare con un sistema “gratta e annusa” in corrispondenza di determinate scene.

Mentre oggi si sviluppano altre tecnologie analoghe adattate al digitale e agli schermi domestici (che godono però di una fortuna limitata, anche per le ridotte possibilità espressive di questi accorgimenti), si fa largo un ampio dibattito che investe il senso del tatto.

È proprio vero che il film inibisce completamente la possibilità di toccare e, di conseguenza, di fare un’esperienza fisica di quanto avviene sullo schermo? Oltre al toccare con le dita, c’è anche un altro modo per venire a contatto con le immagini?

Negli ultimi anni gli studiosi hanno introdotto il concetto di “aptico”, un termine che ha origine nel verbo greco hápto, che significa “mettere in contatto, toccare, connettere”, e che attraverso il latino haptice è stato trasposto nell’inglese haptic sempre con lo stesso significato che rimanda al senso del tatto. In rapporto ai media e al mondo dell’arte, si tratta di un contatto che si attiva attraverso lo sguardo, un “toccare con gli occhi” che risveglia una risposta sensoriale e tattile, per una via indiretta, a quanto mostrato sullo schermo.

Ci sono opere e film che più di altri suggeriscono questa idea attraverso un particolare impiego delle immagini, del montaggio, del ritmo stesso dell’audiovisivo. Ad esempio, la rappresentazione ravvicinata delle mani che toccano qualcosa, come quelle che scorrono sui tasti di Lezioni di piano (di Jane Campion, 1993) suggerendo la poesia che si sprigiona da un contatto con lo strumento, oppure quelle del bambino, nell’incipit dell’enigmatico e sperimentale film di Ingmar Bergman Persona (1966), la cui mano si protende con il braccio fino a toccare uno schermo che lo sovrasta e su cui appare un volto di donna, stimolano nello spettatore una percezione di movimento e sensazioni legate al toccare, all’entrare in contatto con le superfici.

L’importanza di queste “interfacce” fisiche e digitali, come tessuti connettivi è stata messa in rilievo da Giuliana Bruno in un libro recente, dal titolo Superfici. A proposito di estetica, materialità e media, 2016 (alla medesima autrice si deve anche un’ampia riflessione sulla dimensione aptica nel libro Atlante delle emozioni) che definisce le superfici come spazi di confine, come soglie – tra l’interno e l’esterno, il visivo e il tattile, la forma e il significato – che funzionano da punto di incontro, luoghi di relazioni materiali. E, sicuramente, anche come luoghi densi di significato: la mano del bimbo che tocca lo schermo bel film di Bergman allude anche al tema dell’afasia della protagonista del film, che trova altre vie per esprimersi.

Il cinema sperimentale, con vocazione artistica, quello diffuso nei musei o attraverso i numerosi schermi che punteggiano la nostra vita quotidiana ha allargato enormemente le potenzialità di questo contatto aptico con le immagini. Piani ravvicinati, inquadrature lente, che indugiano sulle superfici delle persone – ad esempio la pelle, e non solo in un’accezione di eccitazione corporea –, o delle cose, coinvolgono chi guarda in un’esperienza sensoriale e corporea nuova.

Come per questa pietra che, sul selciato, disturba chi passa, ma risveglia una sensazione di familiarità e vicinanza – quasi a volerla calciare, o toccare – anche in chi guarda.

E, perché no, in quel cinema che indugia sulla preparazione del cibo, con inquadrature ravvicinate e seducenti, che spalancano un orizzonte di sensazioni anche gustative, olfattive, oltre che tattili. È qualcosa di più dell’agire dei neuroni specchio, la cui teoria ha innervato anche la comprensione dei fenomeni collegati alla spettatorialità. D’altra parte si dice anche nel linguaggio comune “mangiare con gli occhi”, come in questa sequenza celeberrima de Il pranzo di Babette (di Gabriel Axel, 1987).

Oggi ci è chiaro, insomma, che con gli occhi si può anche “toccare”. Ed è proprio questa capacità di dilatare i sensi che ci fa ritornare al buon cinema, di cui ci è impossibile fare a meno, per le sue innumerevoli potenzialità artistiche, emotive, e culturali.