spazio
N.41 Maggio/Giugno 2023
Nello spazio di Steven (Spielberg) l’immenso potere dello sguardo
Lo spazio è una componente essenziale del linguaggio audiovisivo e del cinema, così come il tempo: ogni inquadratura – ma potremmo dire ogni immagine – dischiude un ambiente, perché si colloca in una porzione di spazio. L’occhio non vi presta troppa attenzione, concentrato come è a distinguere i personaggi, ma lo sfondo è sempre in agguato e agisce sulla nostra comprensione dell’inquadratura. Pensiamo a tutte le immagini che si sono impresse con forza nella nostra mente (oggi è entrato nell’uso comune il termine “iconiche”: mi si perdoni una certa idiosincrasia per il termine se usato per un medium che lavora essenzialmente sull’immagine, e dove l’aggettivo suona come una tautologia!): a suggerire la loro pregnanza, la loro eccezionalità, non c’è solo il soggetto che viene inquadrato, ma anche la relazione tra primo piano e sfondo. Nel vastissimo serbatoio di immagini e di racconti di uno dei più grandi registi della storia del cinema, Steven Spielberg, c’è solo l’imbarazzo della scelta di immagini che si sono imposte all’attenzione collettiva, come quella della bicicletta sospesa in volo di E.T. L’extra-terrestre (1982) o quella della bambina dal cappotto rosso in Schindler’s List (1993).
A un esame più approfondito, la memorabilità di queste immagini è tale in ragione dello sfondo che le accompagna: nel primo caso il cono di luce della luna che viene attraversato dalla bicicletta in volo, quasi un’ombra cinese; nel secondo il colore rosso che si stacca dallo sfondo dell’orrore nazista rappresentato in una vastissima gamma di grigi. Nell’immagine, lo sfondo e lo spazio agiscono sempre sia a livello del significato, sia a livello estetico: la teoria dei cronotopi topografici di Michail Bachtin ha spiegato la forte interazione tra luoghi rappresentati e tipologie di contenuti nei testi narrativi. Ma il cinema, si sa, è una successione di immagini: così lo spazio interno all’inquadratura non è mai statico e, in più, trova una controparte dialettica nel gioco del controcampo . Si tratta della porzione di spazio che sta dall’altra parte, ossia nello spazio dell’interlocutore durante un dialogo tra più personaggi, o ancora in quello di chi guarda se viene inquadrato uno spettacolo. Ne è un esempio la scena finale di E.T., in cui i ragazzi osservano meravigliati ed estatici l’amico extra-terrestre che sta per salire sull’astronave e ricongiungersi al suo mondo alieno.
Questo spazio che sta al di là ha spesso un significato metalinguistico. Ci ricorda cioè ciò che stiamo facendo noi spettatori, nello spazio protetto e inviolabile della nostra realtà fisica: stiamo guardando il prodigio delle immagini in movimento che scorrono davanti ai nostri occhi componendo delle storie. Prendendoci per mano, i registi ci inducono a ripetere (o anche solo a renderci conto di) comportamenti che alcuni personaggi sullo schermo compiono in nostra vece: così il guardare, oppure, a volte, l’applaudire un cantante o una manifestazione musicale.
Il richiamo alla musica apre un altro scenario: lo spazio dell’immagine in movimento è anche uno spazio audiovisivo, nel quale la colonna sonora si inserisce attivamente.
Due note – celeberrime – di John Williams denunciano una presenza inquietante in un film horror tra i più citati di sempre: si tratta de Lo squalo di Spielberg (1975). Il tema minaccioso sta come sineddoche del feroce animale che miete vittime tra gli ignari bagnanti. Spielberg colma con un sovrappiù di senso quello che le immagini non mostrano, inducendo lo spettatore a riflettere sulla complessità degli indizi (visivi e sonori) che lo aiutano a leggere e decodificare le immagini in movimento.
Ma, per tornare allo spazio dell’inquadratura, come ha osservato ne L’occhio del Novecento Francesco Casetti , ciò che conferisce al cinema il potere maggiore è la possibilità di superare i limiti dell’occhio umano per mostrare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scala dei piani e dei campi attraversa dettagli e si estende fino a figure che si perdono in spazi infiniti, come nel deserto che connota l’ambientazione di una delle prime prove di Spielberg, Amblin (1968).
Nella possibilità di posizionare lo spettatore nel cuore degli eventi, nel volto dei protagonisti, oppure lontano, in alto, fuori di essi, c’è la scelta del regista di prendere posizione sulla storia (e sul mondo), cogliendola da prospettive differenti. Allo spettatore spetta il compito di capire e interpretare ciò che suggerisce l’autore del film, e di decidere di compiere con lui il percorso narrativo e di senso suggerito dalle storie.
Dunque, lo spazio nel film ha molteplici risvolti che vanno dai bordi dell’inquadratura al rapporto tra primo piano e sfondo, al ricorso al controcampo come spazio di chiamata in causa dello spettatore, all’importanza dello spazio sonoro, e ancora alla scala dei piani e dei campi di ripresa. Ed è con questa agile “grammatica dello spazio” attraverso i film di Spielberg si può approcciare ora il film più personale e autobiografico del regista, forse poco compreso dal pubblico, ma così poetico ed essenziale per capire cosa sia per lui il cinema, da meritare di essere visto e rivisto più volte: The Fabelsman (2022).
Nella storia di questo bambino così affascinato dal cinema da trasformarlo in uno strumento di rivelazione del mondo e della propria storia familiare e personale, oltre che in un veicolo di meraviglia per altri, intuiamo l’immenso potere dello sguardo. È proprio lo sguardo che delimita, disegna, collega, suggerisce, amplifica, dilata lo spazio. Nel cinema, prima di tutto. E poi, forse, anche nella nostra esperienza di vita.