casa

N.17 Gennaio 2021

LIBRI

Vita di Furio, dalla cravatta alla strada

Roberto D'Alessandro ha raccolto in un libro gli incontri con "I marchiati" Storie vere dai margini della società come quella di Furio

foto Toby Wongc on unsplashfoto

Ho conosciuto la solitudine.

Ha il volto di un uomo quasi invisibile, sospeso nel nulla, disperso nel tempo.
Nomina sunt omina, “i nomi sono gli uomini”, è un detto che non trova applicazione nel suo caso.
Furio incarnava l’esatto contrario del suo nome. Lento, senza iniziativa, si faceva determinare dagli eventi convinto che anche la semplice intenzione di agire non avesse possibilità di successo.
Furio era senza età, per come si disorientava nel mondo. Era un bambino che muove i primi passi, uno straniero in casa propria che domanda indicazioni, e si nascondeva al mondo come si nascondeva a se stesso. Troppo faticose per le sue energie le questioni che sentiva di dover affrontare.
Cosa avesse a che fare un laureato come lui con la droga e con la strada non riuscivo a spiegarmelo. Camicia, giacca e cravatta come lui avevano perso smalto e colore, eppure gli conferivano un’identità sociale mai inseguita né raggiunta. L’eroina fu il suo unico padrone. Discreta e silenziosa, metteva a tacere il senso di colpa di aver buttato una vita. Ammazzava il passato, mitigava il presente, toglieva sensibilità al pungolare del futuro.
La prima domanda che mi sorse su di lui era dove si fosse fermato il suo cammino. Non sembrava inetto alle relazioni, vista la gentilezza e l’ironia che sapeva esercitare con noi operatori. Lo scoglio su cui ogni buona intenzione si infrangeva era la sua motivazione, unica base possibile per progettare un percorso di cambiamento. Eppure era attento alla cura della persona, si impegnava per fronteggiare le sue carenze di salute, tutto avveniva come dovesse prepararsi ad un salto in avanti; e tutto infine si infrangeva. Immaginava un futuro? Tesseva sogni ad occhi aperti? Non avrei saputo dirlo.
Abitava con suo padre in un quartiere benestante, ed era la sua unica garanzia di sussistenza. Un giorno suo padre morì. Ben presto Furio si rese conto di non essere in grado di mantenersi in quel contesto senza un reddito e con i suoi problemi di dipendenza che lo impegnavano a barcamenarsi tra sostanze, servizio e comunità. Così mise in vendita la casa, unico bene di cui era proprietario: trovò i compratori e stese il compromesso davanti al notaio. Qui si manifestò la sua parte autolesionista, quando esauriti in poco tempo i proventi del compromesso ebbe l’idea di non voler più vendere la casa. Come avrebbe restituito i soldi, o pagato le penali previste? Non avrei saputo dirlo. Iniziò un lungo iter giudiziario al temine del quale fu condannato a risarcire ai compratori il compromesso e il danno, cosa che fece accettando di svendere la casa. Era riuscito nell’incredibile impresa di doverla lasciare senza farci un euro.
I miei periodici tentativi di convincerlo a salvare il salvabile prima che fosse troppo tardi non avevano avuto alcun successo. Scattava in lui una determinazione a non cedere, una resistenza contro ogni logica. Come non fosse stata sua l’idea. Non avevo mai visto all’opera un tale livello di autolesionismo.
Eppure un significato doveva averlo.

La casa doveva essere
tutto quello che gli rimaneva di se stesso
Se avesse potuto
se la sarebbe portata sulle spalle

Può essere forte a tal punto lasciare il noto per l’ignoto, abbandonare i propri rituali e staccarsi dalle radici affettive? Mi sembra di leggere piuttosto l’affermazione insana del suo diritto ad esistere e determinarsi. La casa doveva essere tutto quello che gli rimaneva di se stesso, tanto si era identificato in essa. Se avesse potuto se la sarebbe portata sulle spalle.
Mai parola fu più profetica per lui di “compromesso”, un patto a metà del guado delle non scelte. Quando gli venne ingiunta una data per lasciare libero l’alloggio da ogni cosa e da se stesso, prese la decisione di restare, di non aprire la porta fino a farsi stanare a forza, pur senza opporre resistenza. Nel grembo della sua casa si consumò la sua regressione fetale.
Fu così che un laureato in lingue, sempre in giacca e cravatta, divenne da un giorno all’altro un senza dimora. Aveva rimandato il più possibile la resa dei conti con la miseria della sua vita, e a suggellare il dramma aggiunse una rovinosa caduta sul ghiaccio, una mattina ventosa, mentre scendeva una creuza diretto in centro. Riportò serie lesioni vertebrali, e da quel momento la sua mobilità andò solo peggiorando.
Contro ogni aspettativa, nella sua nuova condizione Furio tirò fuori energie inaspettate: la voglia di vivere, proprio quando sembrava giunto al capolinea.
L’uscita di casa rivelò l’effetto positivo di diradare la nebbia che offuscava le sue giornate perse nel vuoto. Ora sapeva di dover contare solo su se stesso, armato di busto e stampella per sfidare i mulini a vento.
L’impatto con la strada coincise con la famigerata “emergenza freddo”, un periodo dell’anno in cui la città mette a disposizione un numero aggiuntivo di posti letto per scongiurare le morti per assideramento. Quando il vento dell’Appennino porta la temperatura verso lo zero, anche i più irriducibili devono trovare un riparo. Furio si mescolò a quella carovana di umanità non senza manifestare un certo sconforto, e l’esperienza del dormitorio lo costrinse per la prima volta a mostrare i denti quando qualcuno disarcionava le sue cose dalla branda passandogli davanti. Capì che per strada doveva difendersi, o ancor meglio fuggire se non voleva soccombere. Non era fatto per quella vita.
Un giorno lo trovai seduto sul marciapiede fuori dal servizio, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Mi raccontò che la sfortuna sembrava accanirsi su di lui: i suoi averi scampati allo sfratto, custoditi nei locali di un’associazione, erano stati confusi con indumenti destinati a famiglie in difficoltà, e dati via. Tutto ciò che gli rimaneva, l’unico collegamento tra passato e futuro, non c’era più. Lui che aveva bisogno di tutto era diventato suo malgrado un benefattore.
Lo vidi amareggiato come mai prima. In un impeto di orgoglio decise che era tempo di fare una scelta radicale per uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato. Accettò di andare in comunità e fece domanda per la casa popolare.
Lo accompagnai in una comunità vicino ad Asti, dove lavoravano due sorelle dal sorriso permanente veterane di naufraghi come Furio. Poteva essere il luogo adatto per aiutarlo passo passo a ritrovare un senso, perché avevo avuto prova che lì gli operatori modulavano le proprie aspettative rispettando i tempi e il sentire delle persone, utilizzando ottimi argomenti per stimolarle a riprendersi cura di sé.
Furio entrò in comunità senza immaginare che sarebbe diventata la sua unica, ultima famiglia.
Lo andavo a trovare spesso. Da lontano, lasciata l’autostrada, compariva una cascina in mezzo a campi di grano, tra le colline ed i vigneti dell’astigiano. Aveva stanze semplici ma ordinate e un clima di vera famiglia. Furio non era mai stato un tipo espansivo, e non aveva mai frequentato la “piazza”, quel mondo tra reale e virtuale dove i tossicodipendenti costruiscono le loro reti. Di conseguenza anche in comunità occupava uno spazio ai margini. Ma una volta tanto la fortuna gli arrise: finì in camera con una vecchia conoscenza del suo stesso quartiere, un ospite che come lui veniva da un’altra dimensione culturale, un uomo di pensiero e un militante con l’eskimo. Grande lettore, amante dei cantautori, era a sua volta apprezzato autore di canzoni e scrittore di diari, ma precipitato da anni in un baratro alcolico che aveva sommerso le sue qualità umane e spirituali.
L’amicizia ritrovata allietò le giornate di Furio e gli infuse un nuovo spirito. Nel clima comunitario allentò le difese e si fece conoscere, nel bene e nel male. Che avesse intrapreso una sua rivalsa, senza colpevolizzare nessuno, si capì quando cominciò a fare molte più richieste, e addirittura a porre le basi per un “dopo”. Ottenne il riconoscimento dell’invalidità civile con tanto di assegno mensile, il suo primo piccolo reddito. Ma dovette fare i conti anche con i limiti della sua salute, gli strascichi della vecchia caduta e il cuore affaticato. Come se non bastasse, una radiografia rivelò che un ago si aggirava da anni nel suo corpo.
Nel frattempo erano venuti a galla anche gli effetti giudiziari di una lunga serie di piccoli furti da supermercato che Furio aveva commesso negli anni della strada. Un cumulo di pena che riuscì a scontare in comunità, non senza tentennamenti del Magistrato di Sorveglianza che vista l’entità di reiterazione discusse seriamente la sua pericolosità sociale. Un passaggio che ci fece sorridere pensando ai titoli dei giornali – “Preso il terrore dei supermercati”, “Non colpirà più l’Arsenio Lupin del parmigiano” – e che fu presto messo a tacere dall’impeccabile buona condotta del soggetto.
Un giorno mi sventolò davanti la raccomandata del Comune che dopo anni di graduatoria gli assegnava una casa. Un ritorno alla normalità, dopo il lungo esilio. L’abitazione si trovava sulle alture di Prà, non lontano dalle serre del pregiato basilico. Una schiera di palazzine rosa arrampicate sulla collina ci accolse la mattina in cui io e Furio andammo a vedere la casa e firmare l’accettazione. Arrivò da Asti in giacca e cravatta, arrancando con la stampella, ma appariva emozionato mentre mi copriva di domande, cercando di farsi piacere la zona man mano che con l’auto attraversavamo i primi blocchi di case. Il sole batteva forte sul mare di Genova sotto di noi.
L’abitazione ci aspettava in cima a due rampe di scale. Rimasi di stucco. Furio non si fece prendere dal panico e con fatica si arrampicò fino alla porta. La casa era libera, in ottime condizioni e con tanto di terrazzo. Gli piaceva, e non volli rovinare il momento ponendo ad alta voce le domande che stavano dominando. Presi l’appunto mentale di fare successivamente i miei passi in Comune.

Fino a quanto, mi chiedevo,
è opportuno rispettare
le scelte di vita o di non vita
di una persona?

Nella comunità di Asti per molti giorni fu il centro delle conversazioni. C’era da far imbiancare la casa e ragionare sugli arredi. La sua proiezione in avanti come sempre non coincideva con la necessaria autonomia a mettere in pratica. Cominciò così un dialogo complesso tra di noi, per portarlo su un piano di realtà rispetto ai castelli di carte che andava edificando. Lo convinsi a chiedere immediatamente il cambio della casa per motivi di invalidità, attraverso una procedura che si rivelò del tutto inutile, visto che poco tempo dopo venne ricoverato in ospedale.
Giorno dopo giorno fu sempre più chiaro che nella casa nuova, ormai imbiancata e per la quale pagava regolare affitto, non sarebbe mai entrato. Il dilemma adesso era come gestire le sue aspettative ed accompagnarlo in questa fase, forse la più difficile della sua vita. Lui che aveva trascorso una vita spenta e priva di obiettivi, doveva accettare l’altolà proprio quando ne stringeva uno tra le mani. Troppo tardi era andato in porto il nostro percorso.
Fino a quanto, mi chiedevo, è opportuno rispettare le scelte di vita o di non vita di una persona? Avremmo potuto spingere l’acceleratore sviando i suoi no, i se, i ma, forzando l’asticella dell’intrusione che una persona è in grado di tollerare nella propria vita?
Avevo incontrato parecchie persone come Furio, vissute in una sorta di black out del pensiero, poi risvegliatesi già avanti negli anni per accorgersi di non avere vissuto, di non avere scelto, di aver girato a vuoto. E che forse quella vita così noiosa e frustrante, piena di imprevisti, valeva la pena di essere abbracciata.
Mi faceva male essere sincero con Furio, che intensificava telefonate e richieste di colloqui, sentendo il tempo a sua disposizione scivolare come la sabbia nella clessidra. Veniva a Genova in treno, da solo, passava al servizio e sbrigava altre faccende. Ma dopo un altro ricovero, dalla comunità ci dissero che stava diventando troppo invalido per le condizioni della struttura. Si erano tutti affezionati a lui, ai suoi modi insoliti, l’aria ingenua e disarmata, e capivano che sradicarlo ora dall’unico luogo dove aveva trovato del calore sarebbe stato disumano. E così anche noi fingevamo con una certa ritrosia di cercare una struttura alternativa, tanto che le telefonate con la comunità per aggiornarci sui progressi parevano una farsa concordata.
Furio continuò a battersi per il cambio della casa anche dalla carrozzina. Intanto assaporava nella comunità di Asti la sua vera unica famiglia, il rifugio dove a scaldargli il cuore bastava qualche discorso a tavola, una canzone suonata alla chitarra, un nuovo ospite da accogliere. Per uno che aveva perso tanti treni, affogando le sue paure nell’aridità di uno stupefacente, dietro una cravatta sgualcita, la vita in comunità fu una benedizione. In quel luogo faceva la cosa che gli era riuscita peggio nella vita: mettere in comune se stesso, uscire dal guscio, scontrarsi e incontrarsi.
Continuai a chiedermi cosa davvero pensasse di se stesso e della vita, e non avrei saputo dirlo. Sapevo quanto rimpiangeva la casa rosa sulla collina di Prà, quanto restava assorto a guardare dalla finestra un mondo che corre e che scorre, tra rimorsi ed illusioni.
In questa sorta di serenità, una mattina come tante lo trovarono addormentato nel suo letto. La comunità, la sua famiglia, lo accompagnò nell’ultimo passaggio, forse diretto a trovare quel senso che troppo presto aveva smesso di cercare, troppo tardi aveva ripreso ad inseguire.

«Peggio di quella dei segnati dal destino, i “portatori di handicap” che hanno trovato nel tempo chi li assistesse, difendendo i loro diritti ma, nei limiti del possibile, secondo la vecchia regola di “aiutare gli altri perché si aiutino da soli”, peggio di quella è la condizione degli sbandati, dei senza-nessuno e dei senza-patria, dei vaganti soli o in mezzo ad altri come loro non sempre franchi e solidali, dentro una società detta globale dalle frontiere transitabili legalmente o tra tanti pericoli, e di coloro che, come nel Medioevo o nell’Ottocento dei romanzi di Hugo (appunto “i miserabili”), per le più varie e bensì consuete delle sventure, si rifugiano o nascondono o vengono malamente respinti ai margini di una società. Le storie che Roberto D’Alessandro racconta sono di persone vere, di vere difficoltà e di vere sofferenze, e la nostra fortuna di lettori è di aver trovato in lui un mediatore, tanto capace quanto onesto, tra quelle storie e la nostra sensibilità». (G. Fofi)

* Roberto D’Alessandro (Genova, 1961), è assistente sociale presso il Servizio per le Tossicodipendenze dell’ASL 3 genovese. I marchiati è il suo primo libro
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ed Effigie