cibo
N.15 Novembre 2020
La ricetta
Racconto intimo di un tempo strano in cui le distanze sembrano schiacciarci eppure basta il profumo di una torta fatta in casa per farci sentire più vicini. Anche a chi manca
Stendo la pastafrolla sul ripiano di legno. L’appiattisco bene col mattarello, proprio come mi aveva insegnato lei. Ripenso ai gesti meccanici ed esperti delle sue mani che lavoravano davanti ai miei giovanissimi occhi curiosi. La pelle sul dorso era carta giallognola, di una ruvidezza gentile, cosparsa dalle macchie dell’età. Nonostante questo le sue carezze erano morbide come la pasta che massaggiava. Guardo le mie. Anche loro sono ruvide, seccate dal gel che prontamente mi cospargo quando sono in giro. Le osservo imbiancate dalla farina. S’è appiccicata ai polpastrelli, infilata nelle pieghe delle nocche e sotto le unghie.
Alle mie spalle il telegiornale riporta gli ultimi aggiornamenti sul numero dei contagi, poi un politico prende la parola. Esclama la sua preoccupazione e punta il dito su chi governa. Non ci faccio più di tanto caso, ormai la conosco la tiritera.
Do altre passate di mattarello, avanti e indietro.
«Devi appiattire la superfice, pochi millimetri» mi ripeteva. Facevo la prima superiore quel lontano pomeriggio in cui aveva deciso di insegnarmi il segreto delle sue torte. Con mio padre e mia madre al lavoro noi eravamo le padrone della cucina. Ridevamo. Mi sussurrò anche che a sua figlia, mia madre, non l’aveva mai insegnato. Mi aveva messo in mano un uovo. «Rompilo, forza». L’avevo sbattuto sul bordo della ciotola e insieme all’albume anche il tuorlo c’era finito dentro. «Non fa niente». Tolto il tuorlo, me ne aveva passato un altro. La seconda volta era andata meglio. Ci aveva grattato del limone e aveva sbattuto tutto col lievito facendoci piovere una cascata di farina.
«La pasta frolla è pronta quando non appiccica più alle dita».
Ricordo il suo viso, gli anni ci avevano scavato dei solchi ma non erano riusciti a spegnerne la luce. Capelli bianchi, lunghi e senza volume. Nascevano sopra la fronte rigata e avvolgevano il volto.
Un quadrato color sabbia prende forma davanti a me. Lo riverso in una teglia e sfilo la carta da forno con la stessa delicatezza di quando sistemo il lenzuolo ai miei figli.
Prendo la ciotolina di marmellata. Violacea, sembra quasi scintilli al riflesso della luce sotto la cappa in cucina.
«Io preferisco quella di prugne». M’aveva confessato una volta. Ne stava preparando una per festeggiare il fatto d’essere diventata bisnonna.
La spalmo con un cucchiaio distendendone i grumi su tutta la superfice. La patina zuccherosa ricopre quasi tutto.
Solo un mese fa avrei potuto chiamarla. Dirle che ne stavo preparando un’altra. La tristezza si fa sentire. È successo tutto all’improvviso. Prima era arrivata la stanchezza, pesante come piombo legato alle caviglie. Poi i problemi respiratori. Era sempre rimasta in casa, terrorizzata come tutti. Non l’abbiamo mai capito come l’abbia preso il virus. Le sale di rianimazione sono impenetrabili. Anche con la mascherina. Così mi ero ripromessa che quando sarebbe uscita dall’ospedale sarei andata a trovarla.
Recupero della pasta avanzata e ne creo delle strisce lunghe uguali. Le distendo incrociandole sulla superfice di marmellata.
In piena notte la telefonata. Se n’è andata. Non ero più riuscita a prendere sonno dopo.
Accendo il forno e ci infilo la teglia. Mezz’ora, quaranta minuti. La recupero con le pattine. Un cerchio d’orato perfetto. Dovrei aspettare mio marito e i ragazzi per cena, lo so. Ma sento anche un’impellente responsabilità; dev’essere deliziosa. Ne taglio una fetta. Al mio morso la crosta cede. Il sapore granuloso di marmellata cotta mi scotta docilmente la lingua e mi profuma il palato.
Basta una piccola cosa, il cuore si riempie di gratitudine e il suo ricordo si fa presente.