forma
N.14 Ottobre 2020
Liturgia del Espressioni del sacro: una lingua per lo spirito
Intervista a don Marco Gallo direttore della Rivista di Pastorale Liturgica sulla tradizione del rito e i suoi cambiamenti di fronte alle sfide del tempo
Qualcuno, a sentir parlare di “liturgia”, potrebbe essere tentato di pensare a qualcosa di vecchio e stantio, inutili ornamenti in assenza di contenuto. Eppure nel suo continuo mutare, nelle sue forme sempre nuove e mai uguali, la liturgia genera uno stile, un modo di percepire la realtà. Educa. Con la sua enorme carica simbolica (il gesto dello spezzare il pane e il vino, ad esempio) la liturgia ci apre un mondo e, in un modo del tutto originale e profondo, ci apre al mondo.
Abbiamo provato a capirne qualcosa di più con il teologo don Marco Gallo, direttore della Rivista di Pastorale Liturgica.
Da sempre la liturgia ha come compito quello di fissare in “forme” adatte e immediatamente comprensibili a tutti la vita e la professione della religione. Quando nasce questa esigenza nella storia del cristianesimo?
«Ogni comunità, dalla più semplice a quella più complessa, ha bisogno di formalizzare le proprie pratiche comuni: il tempo (orari, calendari), gli spazi (privati e comuni), il lavoro ed il riposo. La dimensione festiva e liturgica quindi non può esistere senza una forma rituale. Il tipo di forma, poi, è evidentemente caratterizzato culturalmente. Che poi le forme sia immediatamente comprensibili a tutti non è cosa vera. La potenza rituale, infatti, sta nel gioco sapiente tra ciò che è esplicito e comprensibile e ciò che è evocato o persino nascosto: un rito che fosse spiegazione di sé sarebbe completamente inefficace».
Come si è evoluta nel tempo la liturgia cristiana, quali sono state le riforme più importanti?
«La liturgia cristiana si struttura a partire dalla risurrezione di Gesù. Il ritmo settimanale della Pasqua eucaristica comunitaria è quindi la forma più antica del rito cristiano. L’espulsione subita dal contesto giudaico, ha portato lo strutturarsi lento di una festa di Pasqua annuale cristiana, che si innesta su quella giudaica, e lentamente all’arricchirsi delle varie feste dell’anno liturgico, fino alla sua forma completa, sostanzialmente la nostra, nel IV secolo. In questa evoluzione molto delicata, che meriterebbe più precisione, le tradizioni sono plurali, ordinate dalle grandi chiese in Oriente e Occidente. In Occidente, a partire dall’epoca carolingia, è la liturgia del Vescovo di Roma ad essere presa come modello, fino a diventare lentamente non solo la più autorevole, ma quasi l’unica possibile. In particolare è il Concilio di Trento che compie un’opera molto significativa di uniformizzazione dei tanti riti, in particolare la Messa (da celebrare in tutto il mondo con il notissimo Messale di Papa Pio V). La riforma successiva al Concilio Vaticano II riconosce nella liturgia il primo dovere e la prima fonte della vita dei cristiani, apre la via ad un dialogo con le culture molto più serrato (si adottano le lingue vive) e si compie la più grande revisione e riforma di tutti i libri rituali».
Oggi con la pandemia e i nuovi media, è cambiato qualcosa? La Chiesa come ha affrontato o sta affrontando questi cambiamenti?
«In queste settimane le parrocchie ricevono la Terza Edizione del Messale di Paolo VI, quello successivo al Concilio Vaticano II. La liturgia cattolica oggi funziona così: ci sono libri detti “tipici” che sono modello per tutto il mondo e strumento di unità cattolica. È una sola liturgia quella della Chiesa. E poi ogni conferenza episcopale riceve questo testo tipico, lo traduce ma soprattutto lo adatta nel tempo facendo dialogare il fatto cristiano con la cultura, il linguaggio, i segni. Vanno così accolti tutti i cambiamenti proposti per la Messa, quelli di cui si è già parlato (le formule del Kyrie, il Confesso, il Gloria, il Padre Nostro) ma anche numerosissimi altri cambiamenti di espressione e alcuni gesti che sono stati modificati. In questo tipo di lavoro delicato e paziente di formazione, si comprende la preziosità dell’evento di formazione della Settimana Liturgica prevista per Cremona nel 2021».
Alcuni studiosi hanno rilevato quanto sia importante nella liturgia la centralità del corpo, la forza dei simboli, l’efficacia della lingua sacra, l’importanza di una musica e di un canto adatti, ma soprattutto deve ritrovare il primato della forma sul contenuto: secondo lei il Novus Ordo è riuscito in questo?
«Il passaggio dalla lingua morta alle lingue volgari nella liturgia cattolica è stato un evento culturale enorme. La lingua latina creava subito uno spazio “altro” (certo discutibile, ma non banale), l’italiano, come le altre lingue vive, non è mai stato una lingua liturgica ed ha quindi bisogno di tempo per maturare come lingua sacra. Per questo bisogna apprezzare il gesto di fiducia che la Chiesa ha fatto nei confronti delle culture: esse sono ritenute capaci di maturare e crescere per diventare spazi di spiritualità. Per questo però è necessario tutto un lavoro sui codici, soprattutto non verbali: il corpo e spazio, colori, toni, evocazione e simbolo.
Tutto questo è possibile solo con una lenta maturazione di ciò che Benedetto XVI ci ha insegnato a chiamare ars celebrandi. Non quindi un concetto o una tecnica, ma un gesto sapiente e ispirato. A meno di questo, tutta l’enorme riforma rischia di essere un’operazione di superficiale riverniciatura. La liturgia, invece, è per l’esperienza cristiana la prima scuola di vita spirituale, il primo dono che i cristiani possono fare al mondo per un rapporto felice con Dio e con la vita. In questo senso, si può direi che il novus ordo è certamente più adeguato del vetus, capace di raccogliere in pieno la sfida che il precedente non poteva intuire. Esso, diciamo, è in attesa di comunità che sappiano metterlo in atto».
Esiste il rischio che la liturgia venga a volte vissuta dai fedeli come qualcosa di distante, eppure è proprio tramite essa che possiamo rivolgerci a Dio e accostarci a Lui in maniera degna. Perché oggi, secondo lei, si vive questo “scollamento” tra la vita di tutti i giorni e la vita liturgica della Chiesa? Perché tanti giovani si allontanano vedendo nei “riti” qualcosa di vecchio e superato senza coglierne invece la vitalità e l’importanza?
«La questione rituale oggi è centrale, per i giovani ed i bambini, ma non meno per gli adulti. Un bravo vescovo diceva che “chi non sa celebrare con i giovani non sa celebrare con nessuno”. Secondo me il vero punto è trovare maestri che inizino, aprano il pensiero e la sensibilità. A meno di questo, ogni tentativo è persino pericoloso, perché banalizza e snatura in buona fede. I giovani (e gli adulti) faticano con la liturgia perché essa è obbedienza, nel rito non siamo al centro. E questo ci fa paura. Eppure sarebbe così liberante, lasciarsi fare, accogliere, osservare con amore, entrare in dialogo profondo, aprire alla gratitudine, nutrire, riconciliare, rimandare nel mondo diversi. Non dobbiamo scoraggiarci: la sfida è tutta aperta e da giocare».