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N.14 Ottobre 2020

IN LIBRERIA

Liturgia del tempo di guerra

Il pensiero di don Primo Mazzolari sui modi, i linguaggi e il senso profondo della preghiera e del rito cristiano dentro un tempo di crisi per la comunità

Non so che cosa rappresenti questa riunione per la vostra vita di associazione.

Dovrebbe servire di introduzione al vostro anno fucino e di spiegazione sulla settimana liturgica, due cose che non saprei mettere insieme anche perché ho appena poco più di venti minuti da parlarvi. Allora lascio alle vostre dirigenti di parlarvi delle cose che vi riguardano particolarmente; vi dirò una parola che si innesti direttamente nella settimana liturgica della vostra città. La liturgia non è qualcosa di fisso anche se ha qualcosa di regolare; è una vita che si muove sia pure dietro delle regole di compostezza e di armonia. Tanto è vero che la liturgia si intona al colore del tempo.

I tempi della vita liturgica sono legati al mistero della vostra vita il quale ha riflessi naturali secondo la stagione, secondo l’interiore, secondo il nostro star bene o star male; pochi riflessi su quelli che sono i fatti sociali, perché la vita liturgica è vita umana vissuta con Dio, tutto ciò che parla di Dio.

Vorrei dirvi del tempo, o meglio della liturgia del tempo di guerra, ma non di quella che si svolge all’altare, come implorazione del nostro anno sofferente nella fraternità umana e cristiana, ma proprio di quello che noi dobbiamo sentire di accordato, di armonioso con la nostra sensibilità cristiana in questo momento, se veramente vogliamo essere in rapporto tra quello che sentiamo dentro e quello che vogliamo comunicare al sacrificio liturgico. È prima di tutto compostezza di persona. Noi poveri preti che dovremmo essere il simbolo di questa compostezza all’altare, per molte ragioni non lo siamo e vi diamo qualche volta, con la nostra scompostezza mentre celebriamo, l’impressione di qualche cosa di fuori di posto; e voi avete ragione di farcene un appunto.

Ciò significa che voi avete un’idea interiore di quello che noi dovremmo essere; questo denota una esigenza che dovrebbe servire a guidare anche altri momenti della vita. L’ora del dolore è proprio il colore questo momento; per la stessa ragione liturgica; la liturgia del tempo di guerra in armonia a queste esigenze dobbiamo accordarla a questo momento, dobbiamo adeguare il nostro esteriore. Però in questo anche nel suo significato di poca importanza, c’è qualche cosa che può urtare. Così ogni nostro atteggiamento può essere una stonatura per chi ha il suo ideale di sofferenza. Mettete in mezzo a certe manifestazioni della vita delle nostre città l’occhio di un povero soldato alpino o fante che torna dall’Africa o dalla Russia o dalla Grecia; egli proverà la stessa impressione che voi avete di fronte ad un sacerdote che all’altare non è composto. Egli avrà ragione di domandarsi «perché devo dare tanto mentre c’è tanta gente che non dà niente?».

Deve essere bene imbarazzato
il Signore
che si senta pregare
dagli uni contro gli altri

Che cosa c’è dietro all’altare, ci domanderemo noi, se il sacerdote non è composto? Che cosa c’è dietro quella parola patria, se c’è tanta gente che non pensa alla sofferenza? II sacerdote all’altare ha anche la sua maniera di parlare; c’è il latino che aiuta; qualcuno lo giudica un impedimento, ma è un impedimento che aiuta il sacerdote, dice le parole che la Chiesa gli suggerisce; è un ripetitore che sente il sacro di quello che dice, ma deve metterci il sacro. Ci sono delle parole che sarebbero la stonatura più insopportabile se le dovessimo ascoltare nel momento della Messa; e neanche potremmo tollerarle quando il sacerdote parla dal pulpito. Noi sentiamo tutto ciò che sconviene nel linguaggio sacerdotale; tutto è offrire azioni di grazie, tutto è un comunicare; ogni parola del sacrificio celebrato è su questo piano. Se egli dicesse una parola fuori di questo ordine, noi sentiremmo il sacrilegio, perché è sacrilegio sulla bocca del celebrante ogni parola che non conviene alla dignità della maestà Divina. C’è una Liturgia del tempo di guerra, ci sono delle parole che sono un sacrilegio; queste parole diventano ancor maggiormente sacrilegio se sono pronunciate da donne, da giovani, da cristiane. Dico da donne perché voi dovete essere le custodi della pietà liturgica. Siamo in guerra; c’è della gente che si fa del male; ma spero che un giorno finiremo di farci del male. La cosa più spaventosa di questo momento non sono le flotte che si inabissano, non sono le città che si distruggono, non sono sempre i morti. È il venir meno di certi cuori di creature che dovrebbero essere i custodi del sentimento della pietà.

Se non sentite di voler bene agli ideali della pietà, voi non potete essere intonate alla liturgia di quest’ora di guerra, come ce la suggerisce la lingua liturgica che il cristianesimo ha consacrato in una maniera così perfetta. Quindi vedete come voi donne, voi giovani, voi cristiane, dovete togliere dal vostro vocabolario l’abitudine che è divenuta il linguaggio comune. C’è un gergo di guerra che è la dimostrazione della nostra barbarie: cementare, spaccare, coventrizzare, distruggere, contare i morti, confrontarli con quelli degli altri come se quelli di là non fossero dei nostri; questa è la posizione più negativa di quella linea spirituale e liturgica che la Chiesa ci suggerisce in questo tempo che entra come una nota della sua preghiera. E accanto alla parola c’è anche il sentimento: sentimento è il colore interiore del nostro animo in conformità di ciò che si svolge nel nostro animo. In una giornata nuvolosa come quella di oggi le voci un po’ tristi del nostro interiore ecco si affacciano; così è vedete il nostro sentimento di fronte agli avvenimenti; ecco che il nostro sentimento ora deve essere una maniera di sentire come la Chiesa ci suggerisce un sentimento di una grande capacità di voler bene a quelli che soffrono, di voler bene a quelli che muoiono, a tutti quelli che muoiono e a tutti quelli che soffrono. Voler bene con quella sensibilità che diventa non una specie di concessione a tutti coloro che danno molto, ma un bisogno di essere con loro, di non demeritare e, soprattutto per poter essere vicino quando, terminato questo momento doloroso, noi avremo bisogno di restituire a questi nostri fratelli che soffrono almeno la testimonianza di questa riconoscenza.

Poi ecco l’ultimo di questi toni accordati al momento della nostra preghiera.

Così dovremmo pregare
in questo periodo,
perché la nostra liturgia
sia intonata al pensiero Divino

Voi, mi domanderete che cosa rappresenti la preghiera in un’ora come questa, se essa è divenuta una delle tante manifestazioni del nostro particolarismo; questo voler portare Dio nelle cose nostre e farlo parteggiare con noi e contro gli altri. Molti trovano questo motivo di preghiera come motivo di scandalo e pensano che deve essere bene imbarazzato il Signore che si senta pregare dagli uni contro gli altri. Noi quando ci mettiamo in preghiera, ci mettiamo in una disposizione che va al di là delle nostre disposizioni, avviene un pochino quello che avviene all’altare; ad un certo momento il pane è divenuto Qualcun’altro, il vino è divenuto Qualcun’altro; ho pronunciato delle parole e il mistero è avvenuto.

Quando  noi  ci mettiamo in preghiera, il primo momento ci trova coi nostri bisogni esterni ad un certo punto, ad un certo momento ci sentiamo  trasformati; c’è qualcosa per cui non mi sento più un piccolo essere allora c’è un Altro che trasforma quelle povere  parole così angustiate dalla nostra domanda e ci fa diventare larghi; allora è qualcosa che è per me, per il mio paese, per gli altri, c’è qualcosa per cui non mi sento più un piccolo essere; allora c’è l’ascoltare nel rinnegare che ci porta ad abbracciare più vastamente.

Così dovremmo pregare in questo periodo, perché la nostra liturgia sia intonata al pensiero Divino, alla preghiera del Cristo, e allora ecco la conclusione che può essere l’introduzione al vostro anno sociale, che purtroppo è un anno di guerra. Senza queste disposizioni fondamentali, introduttrici al vostro particolare e nello stesso tempo alla caratteristica della vostra associazione, voi non avete niente che valga la pena di mettervi insieme. Sarebbe molto più utile prendere la strada comune, prendere la scompostezza che è di tutti, domandare quello che tutti domandano, perché solo in una fisionomia che diventa linea di compostezza, parola intonata, sentimento veramente pietoso, preghiera abbracciante, voi potete trovare la ragione  di  volere  quello  che  ancora  non  avete, di sperare in una giornata ove voi col vostro atteggiamento liturgico, cristiano, della vostra sofferenza, con la vostra preghiera universale potete veramente dire che la giornata che verrà, giornata di pace e di ricostruzione, è dovuta a voi che avete pregato col Cristo che ora è il Sacerdote che accoglie su ogni campo di battaglia, che è divenuto un altare, il sacrificio di tutti, il respiro di tutti, il rantolo di tutti…


La liturgia cristiana nel pensiero di don Mazzolari

Il testo riportato in questa pagina (per gentile concessione dell’eidotre e dei curatori) è tratto dal volume “Primo Mazzolari, «Mi piaccioni le chiese vive»”

a cura di don Bruno Bignami e Umberto Zanaboni (ed. Dehoniane Bologna, 2020).

Il libro è una raccolta di riflessioni del parroco di Bozzolo, a partire da quella offerta nel 1941 alla Settimana liturgica nazionale, e mette a disposizione i testi più significativi sull’omelia, sul rapporto tra il prete e la comunità cristiana, sul senso della liturgia cristiana, sul valore dell’eucaristia nella vita del cristiano, sul senso delle devozioni e della preghiera.Il capitolo “Liturgia del tempo di guerra” riporta il discorso rivolto da don Primo agli studenti universitari della Fuci in occasione della Settimana liturgica di Savona del 1941.

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