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N.02 Giugno 2019
Agli inferi e ritorno come Orfeo in metrò
Intervista al regista Luigi De Angelis che ha riletto il mito monteverdiano nella metropolitana di Buenos Aires dove il contatto nei vagoni affollati libera lo sguardo dalla paura dell'ignoto
Il vagone di un metrò sul palco del Ponchielli, con le pareti imbrattate ad arte dagli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Antonio Stradivari” di Cremona, e tutto quello che in quel contesto ci si può aspettare: i finestrini in cui scorre un paesaggio filmato, i cartelli, i monitor sui sostegni, con le pubblicità e le riprese delle telecamere di sicurezza a riprendere attori e pubblico, che in questo allestimento sono una cosa sola.
Quando entrano in scena i ragazzi dell’Orchestra Barocca della Civica Scuola di Musica “Claudio Abbado” il viaggio è già partito e l’atmosfera è quella tipica degli spostamenti in metropolitana, dove può anche capitare che qualcuno salga e suoni, o canti, o improvvisi uno spettacolo. Oppure che provi a venderti qualcosa, magari insistendo un po’. Quello che non ti aspetti è che tutto questo avvenga in contemporanea, come un fastoso flashmob in cui cadono tutti i confini e tutte le barriere, confuse tra le lacrime di una genuina emozione.
Quando la strepitosa soprano Arianna Stornello tenta di vendere compact disc agli spettatori qualcuno sgrana gli occhi, altri tirano fuori dal portafogli 5 euro e si godono la sorpresa di vedere come va a finire. «Grazie signora, si goda il viaggio!» sorride lei, Musica, saltellando nel vagone con fare ammiccante; poi subito attacca
«Io la Musica son, ch’ai dolci accenti
sò far tranquillo ogni turbato core…».
E la magia di questo Orfeo, giovane, esuberante e sfacciato si materializza senza esitazioni.
È un viaggio nel sottosuolo che ogni giorno fanno centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Come racconta il regista…
«Ho condiviso con il maestro Schvartzman l’idea di portare l’opera in una dimensione cameristica. Di lui all’epoca sapevo esclusivamente che mestiere faceva e che era argentino. Io c’ero stato qualche tempo prima in Argentina, ospite di un amico che abita nell’area a sud di Buenos Aires, e al mattino prendevo il treno per andare nella Capital. Su quei treni popolari, pieni di musica e di atmosfera, fui molto colpito dai venditori ambulanti, sistematicamente apparivano nelle carrozze e che vendevano le loro merci in modo molto fantasioso, con un altissimo senso della propria dignità e con grande consapevolezza del proprio potere creativo e della loro capacità di vendere. Fui colpito anche dal modo in cui la comunità di questi vagoni accoglieva i venditori, che non erano considerati dei disturbatori, ma una sorta di servizio accessorio. Quando, dopo esserci scambiati alcuni messaggi, ho incontrato Schvartzman a Roosendaal, a metà strada tra le nostre città, Bruxelles e l’Aia, quella suggestione argentina mi ha spinto a suggerirgli di realizzare Orfeo in un vagone, per riprendere in un modo diverso il suo viaggio negli inferi e per quella forte idea di seduzione che l’opera porta con sé».
In un vagone non si è mai soli.
«Il viaggio in un vagone ha sempre a che fare con l’incontro di sconosciuti; nella metro, inoltre, c’è la massima mescolanza possibile di strati sociali. Marc Augé, nel suo saggio “Un etnologo nel metrò”, racconta la propria esperienza di viaggio e di osservazione curiosa dei viaggiatori. Chi siamo noi? Chi sono gli altri? Orfeo, che tenta di sedurre attraverso la sua arte, è un perfetto viaggiatore di quella metro ed è facile immaginare che abbia incontrato e sedotto Euridice proprio in quel contesto. Per i miti greci quando ci si innamora c’è una freccia che arriva, ad opera di un dio, e si è catapultati in un universo sconosciuto, che ci attrae ma che al tempo stesso ci spaventa. Creare un legame con qualcuno che ancora non conosciamo significa essere sviati dalla nostra consuetudine, portarti via verso altro che non conosciamo. Sono due temi che si incontrano proprio nella metro di Orfeo: il rapporto con lo sconosciuto e l’idea che questa seduzione ci porterà in un universo completamente nuovo e sconosciuto».
E tutto questo accade insieme: luoghi, personaggi, storia e pubblico, lanciati sullo stesso binario.
«Quello di Orfeo è un viaggio verso territori sconosciuti che sono anche territori dell’anima e della psiche. Gli spettatori di questo vagone possono rispecchiarsi in Orfeo e guardare tutto nella sua prospettiva e attraverso il suo sguardo. L’altro ci permette di capire meglio come siamo noi; spesso quando qualcuno non ci piace è anche perché in lui vediamo qualcosa di noi che non ci piace, di cui abbiamo paura e che non vogliamo vedere. La vicinanza che abbiamo immaginato sul palco implica poi un’attivazione ancora più efficace dei neuroni specchio, per immedesimarsi nelle emozioni di Orfeo e guardare con i suoi occhi».
Chi è davvero Orfeo?
«Un semidio in un solo giorno si sposa e perde sua moglie, perde la speranza, tenta di sedurre con la sua arte Caronte, scende negli inferi, ritrova la sua sposa ma la perde di nuovo. Orfeo è la figura di un uomo che ha il potere di incantare e che crede terribilmente nel suo potere, ma come insegna lo psicoanalista James Hillman, egli è anche nel loop della sua ferita narcisistica: canta, si lamenta per la perdita di Euridice ma c’è sempre lui al centro di tutto: la sua arte, il suo amore, il suo dolore… È la perdita dell’altro, della donna amata, che può riscattarlo e farne come uno sciamano, che usa la sua arte per il suo viaggio nelle profondità, nel quale essere smembrato, fatto a pezzi, e guarire così la sua comunità».
E il riscatto avviene nel momento in cui l’altro non è il nemico da combattere o l’avversario da sconfiggere, ma un tramite per guardare la realtà con occhi nuovi. Oppure con i nostri stessi occhi, finalmente liberi dalla paura delle tenebre, dell’ignoto e dello sconosciuto.