terra
N.01 Maggio 2019
Canzone per un gol sui campi d’Africa
Che cos'è una partita di calcio per i bimbi dell'orfanatrofio di Mbuji Mayi in Congo con i passanti che attraversano il campo di gara e la maglia del Real Madrid sotto al grembiule della scuola
Breve descrizione del campo di gioco. Strada senza uscita in terra battuta, fondo irregolare con fango o polverone a seconda della stagione, porte in legno rimovibili. Passaggio di persone dal lato destro che non interrompe la partita. La signora che torna a casa con la spesa, colpita, è considerata ininfluente ai fini del gioco. Sulla sinistra, la casa con il cane pericoloso: il recupero del pallone è affidato ad un commando «Adalbert era il più piccolo, ma il più coraggioso. L’ho visto entrare più volte in scivolata contro avversari più grandi. Non mancava mai dalla formazione di partenza della squadra dell’orfanatrofio. L’allenatore, di solito, schierava ben cinque stranieri nella squadra di sette. Siccome si gioca per vincere, si facevano giocare i bambini che abitavano non proprio all’orfanatrofio, ma nella stessa via.
Adalbert aveva qualche difficoltà sulle rimesse con le mani. A otto anni, non aveva più l’ultima falange delle dita di entrambe le mani.Le aveva mozzate il padre, con due colpi secchi di machete, quando aveva tre anni. Perché? Sembra che Ada avesse toccato della carne che era stata preparata per il genitore. Forse non era nemmeno stato lui, ma i fratelli più grandi lo avevano indicato al padre furibondo. Alla fine: genitore in prigione per merito dei vicini di casa, mamma e fratelli in fuga e il povero Ada curato in qualche modo in un dispensario, poi recuperato dalle suore dell’orfanatrofio. Nello scorso agosto, un chirurgo gli ha liberato il pollice della mano destra. Quello della sinistra era già libero, riesce così a fare “una pinza” con entrambe le mani. Fa un po’ fatica a mangiare, ma riesce a scrivere e anche ad allacciarsi le scarpe. Per un’eventuale protesi – c’è il dubbio che non serva – occorrerà aspettare che la crescita sia completata, quindi tra 4-5 anni.
L’altro titolare era il capitano, Johnny. Un po’ più grande di Adalbert. Un paio di anni prima, le suore lo avevano mandato a Kinshasa per un’adozione. Ma durante i colloqui, la possibile nuova mamma si era indispettita perché il bambino sembrava aver già costruito un ottimo rapporto con il marito e temeva di essere tagliata fuori. La coppia, aveva quindi rinunciato all’adozione e Johnny era stato rispedito a Mbuji Mayi, a 1.300 chilometri di distanza dalla capitale. A tutti, Johnny aveva spiegato che era stato lui a rinunciare alla possibilità di andare in Europa, perché poi, questi francesi mangiano anche i bambini. Non era una coppia francese, a dire il vero, ma italiana.
Al secondo anno, suor Christine, responsabile dell’orfanotrofio, ha pensato che fosse meglio che Adalbert e Johnny rinunciassero al pallone, visto che i risultati scolastici erano scadenti. La suora che c’era prima, suor Celestine, forse non guardava nemmeno le pagelle, ma aveva capito che era bene assecondare la passione per i bambini. Con le dovute eccezioni. Adalbert era stato punito quando si era scoperto che, sotto la divisa scolastica, portava a scuola la maglia del Real con il numero 7. Da un’altra suora, si era preso una bella sberla perché aveva interrotto la preghiera (colpa mia) per guardare la foto della formazione.
Strano orfanotrofio, nel quale pregavano i bambini e i ragazzi più grandi, non le suore.
Repubblica democratica del Congo, i bimbi dell’orfanotrofio di Mbuji Mayi nella foto della formazione,
Johnny è l’ultimo in alto a destra, Adalbert al centro in basso
foto Paolo Carini
Johnny, invece, era perennemente sotto inchiesta perché, a 12 anni, faceva ancora la pipì a letto. Poi nascondeva le mutande in una qualche fessura, per recuperarle nel pomeriggio e lavarle. Qualche volta le trovava prima la suora…
Il vantaggio, in tutta la storia, era che nessun bambino voleva dormire con lui, per cui aveva un letto tutto suo (in realtà, un mezzo materasso).
La squadra, con Ada e Johnny, ha fatto una sola trasferta, sul campo di Bipembe, a qualche chilometro da Mbuji Mayi. Per l’occasione era stata chiesta l’ambulanza dell’ospedale ed erano saliti tutti i convocati e anche i loro amici.
Mi pare di aver contato 26 bambini. A Bipembe c’è una missione di padri Salesiani. Il più simpatico è padre Mario, un venezuelano. L’ho visto una volta fermarsi con un’altra simil-ambulanza a 5 metri dalla rimessa. Ha fatto salire una ventina di bambini piccoli della missione, contentissimi di essere stati presi a bordo.
La partita è finita con la vittoria della squadra locale a causa di un arbitraggio casalingo. Ma è stato bello il ritorno, con tutti i bambini a cantare. Mi ha ricordato un altro ritorno, sempre in Africa, da un’altra partita di calcio. In quel caso, tutti igiocatori erano accomodati sul cassone di una camionetta aperta. Battevano le mani sul pianale e il rumore del motore faceva da sottofondo. Io ero davanti, ben seduto e sentivo cantare in Kirundi: “eh na morare eh eh, e na morare eh eh”.Questo era il ritornello. La strofa era: “Non sapevate che eravamo forti? Cosa ci avete chiamato a fare?” Il risultato, in realtà, era stato nettamente a favore degli altri. Ma le canzoni sono quelle, non si possono neanche cambiare tutte le volte…