parole
N.24 Ottobre 2021
In piazzetta o in classe, la cultura hip hop fa scuola
Un pomeriggio tra i giovani che rimano e ballano creando un canale espressivo «corale e trascinante» che meglio di altri sa raccontare la città e le passioni che la abitano
Quartiere Cambonino, un sabato pomeriggio d’autunno. Due ragazzi si avvicinano ad un coetaneo seduto su un muretto, intento a consultare il proprio cellulare. Lo apostrofano bruscamente: «Non vieni al campetto rosso?». «A fare che?» – risponde alzando lo sguardo e aggiungendo: «Non ho voglia di giocare a calcio, forse vado in città». Lo incalzano: «Dai vieni, non senti? Al campetto rosso c’è Kubrik che canta».
Oggi in Piazza Francesco Monti non si gioca a calcetto usando le solite due transenne come portine. In verità i palloni ci sono ugualmente, come i soliti bambini che li rincorrono ma, prima di infilare un gol sotto la traversa, devono fare lo slalom tra grandi pannelli colorati, cavi e casse, transenne, skaters e sedie. Il secondo appuntamento di “Back to Camblock”, evento realizzato nell’ambito dell’iniziativa “Estate Insieme” promossa e finanziata da Regione Lombardia grazie all’impegno delle cooperative Cosper e Nazareth e dell’associazione Arci, riempie di suoni e colori questo angolo di Cremona. La musica è, per scelta dei ragazzi che hanno affiancato gli operatori dell’officina sociale “La Gare des Gars”, la grande protagonista dell’evento. Omar, 16 anni, un cappellino calato sugli occhi e tanti dubbi, ammette di «essere un po’ nervosetto». È normale, per lui come per Codez, Laeo e Nick è la prima occasione per esibirsi davanti ad un vero pubblico. Simon, educatore ventitreenne, li rassicura con una parola, uno sguardo, una pacca sulla spalla. Gli chiediamo cosa pensa lui che, con il nome d’arte di Iuman, ha diversi anni di esperienza come rapper, dei brani cantati dai ragazzi. «Non giudico a livello stilistico, tutte le espressioni artistiche hanno la stessa valenza e dignità, meritano di essere ascoltate».
Vediamo che alcuni ragazzini seduti al suo fianco sorridono e prendono in giro a bassa voce il giovane rapper: «Ma chi è questo scarso?». Simon li gela con uno sguardo serio e prosegue, indicando il cantante: «In particolare i primi che si stanno esibendo oggi, che sono agli inizi della loro carriera, meritano di essere ascoltati».
Ci rivolgiamo al gruppetto di spavaldi giovanissimi seduti sul muretto. Sembrano proprio intendersi di questa musica, a loro agio tra slang e “high five”. «Ragazzi, ci dite che genere sta uscendo dalle casse?». Ci guardano stupiti e perplessi, qualcuno a mezza voce: «È la drill», un altro afferma invece che si tratta di «rap», gli altri fanno spallucce non sapendo cosa rispondere.
Per orientarsi, meglio rivolgere la domanda a una delle personalità cremonesi più conosciute in questo ambiente: Renato “Febbo” Frattolillo. Nonostante qualche capello argentato che spunta sotto il cappellino da baseball, ha una carica di entusiasmo capace di travolgere chiunque gli stia attorno, compresi i ragazzini che lo circondano, come una vera e propria “rap star”.
«Quando faccio i laboratori per avvicinare i giovani a questa forma d’arte, la prima domanda che pongo è sempre la stessa: cos’è l’ Hip Hop?».
Un adolescente, tutto fiero nella propria tuta del Paris St Germain, dopo qualche secondo di riflessione, risponde: «È un danza, come quella che sta insegnando adesso Nic». «Non proprio», lo corregge Febbo buttando uno sguardo al campetto rosso dove Nicolas Bile mostra i passi di danza ai suoi giovani alunni. 1Quando parlo di hip hop mi riferisco ad una cultura nata tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 negli Stati Uniti, in alcune periferie sicuramente molto più degradate e più black del Cambonino. Infatti i primi testi rap parlavano del disagio del vivere nei ghetti tra sparatorie, droga e prostituzione».
Approfittando della profonda conoscenza di questo mondo, chiediamo che cosa ha reso questa forma espressiva una vera e propria “cultura”. «Viene definito così – prosegue Febbo – perché dietro la danza, il rap, il djing e i graffiti… ci sono dei valori, tutti riconducibili alle origini del movimento. C’è la fratellanza, perché uniti si può lottare per sconfiggere l’esclusione, c’è il rispetto, molto sentito in un momento storico in cui i “bianchi” disprezzavano apertamente le persone di colore, c’è l’importanza di rimanere uniti. Come potete vedere sono presenti una serie di valori positivi che, nell’HH, si esprimono attraverso diverse manifestazioni artistiche».
Mentre Renato si infervora nel racconto inizia a cantare Dread Kubrik, amatissimo dai ragazzini presenti. Le treccine raccolte, la felpa con il cappuccio, le movenze morbide accompagnano le sue rime: «Quella lady mi ama se sa quanto fatturo / Rimango con la family e a agli infami f*****o».
Torniamo da Febbo per chiedergli se quello che stiamo ascoltando è rap o hip hop. «Il rap è una disciplina» – ci spiega paziente – «corrisponde a scrivere delle frasi e fare rime, è un esercizio stilistico che può svolgere qualsiasi persona. Se lo fai nel modo corretto salta fuori una canzone rap ma che non per questo motivo è hip hop. Per avere il marchio della doppia H deve mantenere fede ai valori della cultura che rappresenta». Si allontana, per avvicinarsi più al palco, dicendoci «peace!» e facendo il segno di vittoria con le dita.
Osservando la piazzetta rossa affollata di ragazzini, di ogni età e provenienza, chiediamo a Simon cosa ci trovino in questo ritmo ripetitivo, in questo cantare che è più simile ad una lettura ad alta voce che ad una vera e propria melodia, in brani che, a sentire anche le signore velate sedute sulle panchine a fianco del campetto, «sembrano tutti uguali».
Salutando Nik, gigante dallo sguardo buono, Simon risponde: «Senso di libertà soprattutto. Come puoi vedere oggi pomeriggio, è un sentimento contagioso, si trasmette anche al pubblico che si sente libero di partecipare al concerto urlando, alzandosi in piedi a ballare, oppure stando seduto».
Non c’è migliore conferma delle sue parole dei bambini di colore che, trascinati dalla musica, si rincorrono ridendo e alzando sulle loro teste le sedie di plastica. Continua Iuman: «È una forma d’arte corale e trascinante, oggi pomeriggio ancora più coinvolgente perché gli spettatori vedono cantare persone della loro età».
Renato quasi si commuove nell’osservare tanto entusiasmo: «Il mio amore è iniziato tra le mura di casa, ascoltando la musica black che mettevano i miei genitori, anche se quello che mi ha proprio colpito è stata la scoperta del freestyle, cioè l’abilità dell’ MC (master of cerimony, cioè il cantante) di improvvisare rime su una base musicale, alle volte anch’essa creata a voce da un altro mc tramite il beatbox».
E Simon, muovendo la testa a tempo della musica, rimarca il concetto: «È una forma di canto che ognuno porta dentro di sé, non hai bisogno di uno strumento, puoi improvvisare, non hai bisogno nemmeno di scrivere i testi, semplicemente li memorizzi. È il fenomeno culturale più importante degli ultimi tempi: universale, semplice, libero dalle retoriche».
Mentre parliamo Kubrik continua a “sparare” le sue rime: «Dove tengo famiglia ho casa e dove tengo casa ho famiglia/ Cresciuto per la strada resto solo con chi mi assomiglia».
Renato lo guarda e, forse rivedendosi, riprende a raccontare la propria esperienza: «Il rap rappresenta una valvola di sfogo, è terapeutico, non sai quante volte mi ha salvato quando ero addolorato per una amore finito, o ero arrabbiato con qualcuno oppure, semplicemente, avevo bisogno di esprimere quello che stavo provando: la musica è stata, ed è ancora oggi, il mio porto sicuro».
Nessuno penserebbe che questo ragazzo dal sorriso solare, con i pantaloni oversize e le Jordan ai piedi, nella vita di tutti i giorni sia un maestro delle scuole elementari. La domanda, se il rap possa diventare strumento educativo, sorge quasi immediata, come rapida arriva la sua risposta: «Da quando insegno utilizzo questo codice, sono ormai 13 anni che in tutti i saggi di fine anno sono presenti almeno tre canzoni rap! In chiave leggera il rap è molto coinvolgente, i bambini si divertono tantissimo con le rime. Tenete conto che per cantare un testo non devi essere Whitney Houston, basta recitarlo ad alta voce».
Naturalmente i brani trattano argomenti coerenti con la scuola: «Abbiamo scritto canzoni sulle tabelline, sugli articoli indeterminativi e sui dinosauri e, alla fine, il rap si dimostra sempre un eccezionale strumento didattico, divertente e duttile per fissare dei concetti nella memoria». Al racconto di Renato possiamo affiancare la testimonianza della professoressa Vania Marinoni, insegnante di italiano presso la Scuola Secondaria di I° grado Anna Frank di Cremona. L’incontro con la musica rap, come spesso accade nella vita, è avvenuto «casualmente, da una telefonata dell’organizzatore del Porte Aperte Festival che mi ha chiesto se fossi interessata ad un laboratorio con un rapper, Amir». Nonostante la prof non abbia familiarità con il genere musicale, accetta entusiasta «perché sono sempre pronta a rispondere agli stimoli esterni quando mi sembrano interessanti». Nasce così un’esperienza coinvolgente avviata con un «primo incontro on line con la classe, in cui Amir ha parlato della sua storia, anche rappando dal vivo».
Oltre a racconti autobigrafici ha invitato i ragazzi, con un linguaggio a loro famigliare, a «non avere paura della penna e a provare a mettere in rima qualche tema per loro importante». Gli alunni si sono lanciati in produzioni personali affrontando tematiche già trattate in classe, come i diritti umani e la Costituzione. In occasione del festival, quando Amir è arrivato a Cremona per presentare il proprio libro “Educazione rap” (ADD Editore), ha colto l’occasione per incontrare, nel parco della scuola, i giovani ed emozionati alunni della III A. «I lavori sono stati letti, sistemati attraverso un vero e proprio cooperative learning. La canzone prodotta, un rap sulla Costituzione, è stata poi registrata da Amir e inviata ai ragazzi. Non la sanno ancora a memoria- conclude la professoressa Marinoni con determinazione – ma le assicuro che prima di giugno la canteranno anche sotto la doccia».
A sentire le voci dei giovanissimi cantanti della III A l’esperienza ha funzionato, come ammette Letizia che afferma: «Mi è piaciuto perché abbiamo provato qualcosa di nuovo, non me lo aspettavo, mi ha appassionato poter comporre una canzone e capire i testi rap, che ascolto spesso».
Naturalmente la magica alchimia non è solo merito della passione educativa della professoressa, né dell’originalità della proposta, ma, soprattutto, di Amir «che si è dimostrato così socievole, disponibile e gentile con noi», come afferma, ancora emozionato, Sebastiano. Il pomeriggio di musica al Camblock, bombolette spray, passi di danza studiati o improvvisati, sta volgendo al termine. Il buio invade il campetto rosso, i cantanti sono illuminati dai faretti accanto alla consolle dove Dj Daniele Soulsolgia non si stanca di mettere basi e fare scratch circondato da un numero sempre crescente di bambini curiosi e desiderosi di provare a fare il dj. Le mamme, affacciate ai balconi, richiamano i figli a casa. Kubrik, circondato dall’entusiasmo e dall’affetto dei suoi piccoli fans, spesso anche vicini di casa nel grande condominio Aler che sovrasta il campetto, snocciola le ultime rime, cantate in coro da tutti:
Vengo dal Cambo
Non ho mai chiesto tanto
A mamma che ha cresciuto 4 figli
e non ha fatto altro che crescerci da sola
in tutto quel tempo faticando.