nodi

N.10 Aprile 2020

SE RESTIAMO UNITI...

Una parola di senso in terapia intensiva

Don Riccardo è il cappellano dell'ospedale di Cremona Il suo ministero incontra ogni giorno la sofferenza e la disperazione ma anche il coraggio dei malati, l'umanità di medici e infermieri: «Nella prova emergono tutte le fragilità ma anche la libertà dell’uomo»

illustrazione di Giulia Cabrini

Don Riccardo è schivo. Non è avvezzo a parlare di sé, del suo duplice compito di parroco a Pessina Cremonese e di assistente spirituale all’Ospedale di Cremona. Da otto anni serve il grande istituto ospedaliero e adesso che l’emergenza si è fatta impellente, la presenza dei cappellani è forse ancora più preziosa. Non lo è perché abbiano chissà quali poteri magici, ma è preziosa nella misura in cui accompagna in maniera discreta, silenziosa, la vita e la morte di tanti. «Non ho scelto di fare il cappellano – racconta, – ma riguardando alla mia vita mi rendo conto che c’è sempre stato, un po’ sottotraccia, come un filo che mi ha condotto qui. Fin da ragazzo, prima ancora del seminario, facevo volontariato in una casa anziani con altri amici della parrocchia e anche in seguito, una volta diventato prete, mi sono sempre imbattuto in realtà assistenziali che necessitavano della mia presenza. Dall’Istituto Vismara al piccolo ospedale di riabilitazione a Rivolta D’Adda che noi preti della parrocchia seguivamo fino alla grande casa famiglia delle Suore adoratrici. Tutto è stato come un percorso che mi ha portato qui. E pensare che una volta sognavo di fare il missionario», confida sorridendo.

Eppure a noi anche l’Ospedale Maggiore di Cremona sembra decisamente terra di missione. Come i primi missionari che partivano per le Americhe, anche qui ci si addentra in un territorio sconosciuto, fatto di volti amici e volti indifferenti, di storie di sofferenza o di guarigione, a volte di incomprensioni e più spesso di dialoghi e rapporti che nascono. E non importa se in corridoio o nel letto di ospedale si incontrano cristiani, atei, musulmani, sikh…. Tutto è occasione per conoscere meglio Gesù.

«In questi giorni mi ha stupito molto – racconta don Riccardo – scoprire la realtà di Samaritan’s Purse, la ong cristiana evangelica che in pochissimo tempo ha montato il grande ospedale da campo che oggi riempie il parcheggio dell’Ospedale per fronteggiare l’emergenzaCovid». Dice di aver incontrato persone con una grande fede, sebbene appartenenti ad un’altra confessione. «Pregano spesso tra loro durante la giornata. Lo fanno per i malati ma anche per sostenere il loro lavoro e quando parlano i riferimenti sono costantemente al Vangelo o a passi biblici. È evidente che il loro modo di operare, così attento alle persone, agli ammalati, a tutti coloro che si avvicendano nei tendoni, nasce una grande fede».

«In alcuni casi
si finisce a parlare di Dio,
della fede persa o ritrovata»

Non nasconde le difficoltà di questi giorni, don Riccardo. «Entro in ospedale in punta di piedi, senza disturbare e senza pretese. Aspettiamo che medici o infermieri ci chiamino se c’è bisogno di una benedizione, di una parola di conforto o di dare l’unzione degli infermi a qualche malato. Più spesso però sono i parenti dei pazienti a contattarci per andare a trovare i loro cari ammalati. Qualche volta entriamo anche in terapia intensiva o nei reparti Covid; nessuno ci ostacola e noi cerchiamo a nostra volta di non intralciare il lavoro degli altri, ma è sempre complicato perché per poter andare in quelle stanze dobbiamo bardarci, utilizzare presidi monouso che scarseggiano per il personale medico e noi dovremmo cambiarli ogni volta che entriamo in una stanza», spiega. Non è però un’obiezione: se serve si va, sfidando le preoccupazioni buone dei medici che temono per l’incolumità dei cappellani. «Sono stato in terapia intensiva per dare l’unzione degli infermi e ho pregato per ciascuno dei malati presenti in quella stanza. Ma ci tengo a raccontare che le situazioni disperate non le vediamo solo ora, ma ogni giorno dell’anno».

Ci sono persone anziane, malati terminali in oncologia o con malattie inguaribili e a nessuno viene negato il conforto di una parola buona o della Comunione se richiesta. «Credo sia cambiato molto il nostro lavoro negli ultimi decenni. Le cosiddette terapie del dolore, soprattutto in chi è inguaribile, rendono molto difficile avere dialoghi profondi negli ultimi giorni di vita di un paziente. Accade quindi sempre più spesso che questi incontri avvengano prima: sono a volte fatti di poche parole, a volte invece sono chiacchierate che spaziano dal meteo alla meccanica. In alcuni casi si finisce a parlare di Dio, della fede persa o ritrovata, delle paure o dei rimpianti che si hanno perché ognuno davanti alla morte reagisce a modo suo, a seconda del percorso catechistico che uno ha fatto o non ha fatto. C’è chi la vive come un castigo di Dio, chi come una condanna, chi la rinnega, chi invece la accoglie sapendo che non è la fine di tutto. Certo non tutti fortunatamente stanno morendo, c’è chi viene in ospedale per breve tempo, chi per partorire, chi per lavorare e dunque spesso tra noi ci sono magari solo un saluto, uno scambio di sguardi, un gesto. Nel mio lavoro ho imparato la pazienza, ma anche che tutti hanno in qualche modo, al fondo, un senso religioso originale, una ricerca di significato che prima o poi emerge. Sono grato di poter essere qui, perché dal punto di vista del ministero sacerdotale essere cappellano realizza nel profondo uno dei significati più grandi del presbiterato: quello di un Dio che si fa prossimo agli ultimi, ai soli, agli emarginati, a chi non riesce da solo a recuperare la propria dignità. Anche se non è facile».

Come si fa a stare di fronte al dolore e alla solitudine? È una domanda che in queste settimane sentiamo ripetere come un mantra in tv , alla radio o sui giornali. Anche nella nostra Cremona – dove ogni giorno il numero dei morti cresce – il pensiero di tutti corre a chi sta morendo solo, alle famiglie che si sentono impotenti e non possono nemmeno salutare per l’ultima volta quelli che sono mamme, papà, nonni e figli di tutti noi.

«Sì, ci sono persone
sole e isolate
ma nessuno
è abbandonato»

«È vero, è un momento di prova. E nella prova emergono tutte le fragilità umane, ma anche la libertà dell’uomo. Quello che sperimento io è che l’unico modo di stare di fronte al dolore è non smettere di sentirsi figli, non smettere di pensare che Dio ci ama. Perché la tentazione del dolore è quella di interrompere il rapporto di figliolanza con Dio. Del resto anche Cristo durante la Passione ebbe paura, visse una grande battaglia interiore, affidandosi però infine sempre al Padre. La mia fatica è far capire che tutta la vita ha un valore e un significato. Anche la fine. E che la vita vale anche nella sofferenza”. Il sacerdote cremonese non ha dubbi: «Ecco, se dovessi sintetizzare il compito degli assistenti spirituali lo direi così: noi doniamo la presenza. Poi ciascuno sceglie se accogliere o no». Poi aggiunge una cosa bellissima.

«So bene che tante persone stanno morendo senza avere accanto i propri cari. È una sofferenza che ferisce, però posso testimoniare che noi cappellani ci siamo e quando non ci siamo, c’è il personale sanitario. Che è fatto di credenti e non credenti, ma tutti con una grandissima umanità. Insieme, noi e loro, portiamo l’abbraccio della Chiesa nella vicinanza ai malati. Per questo posso affermare con certezza che sì, ci sono persone sole e isolate (lo sono i malati, ma anche i medici e gli infermieri che non possono tornare a casa dalle proprie famiglie) ma nessuno è abbandonato».

Racconta della pressione enorme che tutti in ospedale stanno vivendo da quaranta giorni a questa parte: la dedizione al malato, i tentativi disperati di salvare quante più vite possibili, il lavoro infaticabile per convertire i reparti e aggiungere nuovi letti, la cura con cui anche le donne delle pulizie tengono in ordine ogni angolo di ogni singolo reparto. «Nessuno si è tirato indietro».

«A volte incontro dottori e infermieri abbattuti perché sta morendo tanta gente e che ci chiedono di pregare per il loro lavoro. Noi lo facciamo sempre, anche quando non ce lo chiedono. Perché chi soffre è già associato al Cristo che patisce. E siamo insieme, dentro un mistero che è comunione. Del resto lo ha detto anche il Papa pochi giorni fa in San Pietro: “Nessuno si salva da solo”».