dono

N.26 Dicembre 2021

RUBRICA

Lo sguardo necessario del “cinema d’attenzione”

Gli incontri cremonesi con Costanza Quatriglio, regista di "Sembra mio figlio" alla facoltà di Musicologia e al Cinema Filo offrono lo spunto per una riflessione sul "cinema del reale" e sulla forza resistente delle relazioni

Il trailer ufficiale di “Sembra mio figlio”

“Cinema del reale”. Un’espressione entrata nell’uso corrente, impiegata dalla critica per identificare un gruppo di registi italiani che hanno intrapreso un percorso artistico estremamente differenziato negli esiti, ma accomunato dal tipo di sguardo, tenacemente ancorato alla realtà. Innestato nella tradizione neorealista, come pure in quella del documentario antropologico demartiniano, questo cinema non si limita a ravvivare un genere entrato in uno stato di decadenza come il documentario, ma ne mette in discussione lo statuto stesso, alla luce di un mutamento tecnologico che ha sovvertito le modalità tradizionali di acquisizione dell’immagine. Quella analogica, ossia l’immagine fotografica e cinematografica tradizionale, conservava in sé una traccia (André Bazin la chiamava “impronta”) dell’oggetto o della situazione rappresentata. Al contrario l’immagine digitale – come è noto – ha perso qualsiasi radicamento nel reale: ogni cosa può essere ricreata attraverso una successione di pixel.
Proprio a partire da questa consapevolezza, il cinema del reale non pretende di ripristinare un criterio di verità assoluto e perentorio. Piuttosto si interroga sulle condizioni di esistenza del reale e sulle condizioni della sua rappresentabilità. Cosa può essere rappresentato, e come?
Lo sguardo di Costanza Quatriglio, regista di punta di questa koiné di autori e da alcuni anni direttrice della sezione palermitana del Centro Sperimentale di Cinematografia (di recente ospite a Cremona presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia, e presso il Cinema Filo), pone il problema dell’indagine a partire dal titolo del film.
Sembra mio figlio, una delle sue opere più recenti (2018), è l’attestazione di un riconoscimento possibile, benché non certo. Ma per capirne il senso, e per essere coinvolti – sia pure da spettatori – in questo processo di decodifica, occorre riandare all’origine stessa del film che, come afferma in alcune interviste la regista, parte da molto lontano.
Nel 2006, mentre gira il documentario Il mondo addosso, dedicato ad alcuni minori immigrati in Italia da Romania, Moldavia, Afghanistan, costretti a una vita precocemente deprivata degli affetti familiari e spesso di un ruolo sociale, la regista viene in contatto con la storia narrata nel film. Un racconto di ricerca delle origini, per riannodare il rapporto fondamentale con la madre che restituisca la pienezza e forse l’orgoglio di un senso identitario che il presente tende in tutti i modi a cancellare. Ismail e Hassan sono due fratelli afgani che vivono in Italia tra preoccupazioni quotidiane, soprattutto di ordine lavorativo, e reti di relazioni spesso anche cordiali con le persone. La narrazione, asciutta e a tratti spoglia, concede poco spazio alla curiosità dello spettatore: il film chiede di essere visto con attenzione, accettando la sfida di “stare addosso” ai due protagonisti, come fa la macchina da presa.

Uno sforzo che pian piano restituisce a chi guarda la capacità di iniziare a pensare e vivere come Ismail, e di desiderare con lui l’agognato momento della partenza per ricongiungersi alla madre che non vede dall’età di nove anni, quando è stato costretto a scappare dall’Afghanistan. Crescendo, il bisogno di stabilire la sua identità si è fatto più forte. Le immagini di apertura mostrano il protagonista che, afferrato un telefono, chiede: «Sei tu? Stai bene? Perché non parli? Sono tuo figlio, Ismail». La risposta che arriva dall’altro lato è scioccante: «Non ho nessun figlio di nome Ismail». Questo disallineamento viene progressivamente colmato nel corso del racconto, ma secondo modalità imprevedibili, che si possono cogliere solo accettando di essere decentrati in un mondo altro, quello posto tra il Pakistan e l’Afghanistan, dove le cose trovano il loro senso. Anche la camera concede inquadrature più ampie al nuovo paesaggio, lasciando filtrare colori e luci, suoni ambientali e la curiosità di chi, come Ismail, cerca di ri-adattarsi a un ambente che stenta a riconoscere.

… modalità imprevedibili,
che si possono cogliere solo
accettando di essere decentrati
in un mondo altro

Riannodare una storia, per quanto lacunosa e incompleta, è un dono, se il narratore presta attenzione ai protagonisti e al linguaggio impiegato (un linguaggio che, anche attraverso strategie audiovisive, si fa carico di destinatori e destinatari). Se poi la storia è quella di un popolo martoriato, come l’etnia hazara, divenuta minoranza perseguitata all’interno di un sistema oppressivo – le recenti vicende politiche dell’Afghanistan lo testimoniano –, il dono assume una ricchezza inestimabile, e si fa traccia di una rara attestazione culturale. Quella che fa di Sembra mio figlio la prova di un “cinema dell’attenzione” (la definizione è della stessa autrice), uno sguardo che ci è necessario.
Ma il dono – si sa – è in modi imprevedibili generativo di altri doni. Così la storia del film non finisce con la proiezione: i personaggi intersecano ancor oggi la vita della regista, anche se in forme diverse. Questo dono si palesa nel suo senso più profondo a chi abbia pazienza e curiosità per scartarne con la dovuta attenzione l’involucro.

Istruzioni per l’uso: dopo la visione integrale del film, disponibile gratuitamente sulla piattaforma Raiplay, consiglio di accedere a questa testimonianza che, pur senza clamori, dice del potere trasformativo degli incontri.